ISBN 979-12-200-6339-5 ISBN-A 10.979.12200/63395 (2020)

Percorso turistico "Sulla via di Raimondo de' Sangro principe di San Severo" by Francesco Paolo Pinello (come se fosse la tappa di un Grand Tour dei tempi che furono...)

Ricerche sulla devianza sociale cognitiva e sul mutamento sociale

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Questo sito-ebook va letto unitamente al volume F.P. Pinello (2020), Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno (Tipheret, Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale-Roma), perchè ne costituisce parte costitutiva e integrante. Chi visita il Palazzo può utilizzarlo come guida turistica online 


Approfondimenti: Corone di Sonetti e "Impresa"

Tommaso Moncada de' principi di Calvaruso, arcivescovo di Messina e Patriarca Gerosolimitano, mecenate e protettore dell'Accademia degli Industriosi di Gangi
Tommaso Moncada de' principi di Calvaruso, arcivescovo di Messina e Patriarca Gerosolimitano, mecenate e protettore dell'Accademia degli Industriosi di Gangi

1750 - 21 gennaio, Napoli

 

Presso la Loggia "Concordia", sono recitate alcune "canzonette" massoniche. <Le composizioni sono tratte da testi d'autore ignoto divulgati da Carlo Sperandio nell'Appendice alla "Storia della Massoneria" di F.T. e B. Clavel, nonché da alcuni "canti" del noto abate e poeta d'origine calabrese Antonio Jerocades (1738 - 1805), pubblicati nella raccolta denominata "Lira Focense".

Le prime quattro "canzonette" sarebbero state recitate il 21 gennaio 1750 dai membri della Loggia napoletana "La Concordia", una delle officine del celebre Raimondo de' Sangro, principe di Sansevero, in occasione della visita di un esponente della Libera Muratoria inglese, un certo Tolvach. Le altre melodie avrebbero allietato, viceversa, le "agapi" dei Massoni partenopei con i Fratelli d'Oltralpe, organizzate a bordo delle navi francesi dell'ammiraglio Latouche-Tréville, tra il dicembre 1792 e il gennaio 1793, alla fonda del porto di Napoli.

Tali liriche dimostrano che, nel corso del secolo XVIII, in parallelo ad una produzione poetica e musicale massonica di tipo sacrale (basti pensare alle composizioni di Rameau, Bode, Haydn, Christian Bach, Mozart, Cherubini, Méhul, Beethoven ecc.), convivevano una poesia e una musica con caratteristiche "popolari": sonetti, inni, marcette, ballate e così via, utilizzati nel corso di banchetti, intrattenimenti di ospiti forestieri, riunioni "bianche" (con la partecipazione di estranei alla comunione massonica). La pratica tradizionale della poesia, della musica e del canto conferma come si affiancasse al rituale "parlato" per integrarlo, per rendere più intelligibile il significato simbolico dei "lavori" latomistici e per accrescere la partecipazione della catena umana alla solennità del Rito, nel luogo sacro (il Tempio). D'altronde l'importanza dell'"arte dei suoni", vocali e strumentali, è ben nota a tutte le manifestazioni umane: religiose, politiche, militari ecc.

Che un costume poetico e musicale con un'impronta "popolare" già esistesse, in Europa, in altre istituzioni massoniche è attestato dall'ormai rarissima edizione de "La Lire Maçons, au Recuell de Chansons des Francs-Maçons" (13 ed.: 1757; 23 ed. 1776; 33 ed. 1787), la cui terza edizione, riveduta, corretta ed ampliata dai Fratelli De Vignoles e Du Bois, fu pubblicata dal libraio R. van Laak dell'Aia. Ciò dimostra una piattaforma unitaria nei contenuti e nell'operatività, sui quali si muoveva l'intera Massoneria del vecchio continente fin dalla prima metà del Settecento.

Le "canzonette" dei Massoni meridionali attestano che il messaggio spirituale ed etico-sociale dell'istituto era traslato, attraverso un adeguato linguaggio speculativo, anche in ambito profano (cfr. Ruggiero di Castiglione).

 

LA CATENA DELL'UNIONE

Su, Compagni, su, Maestri

Di quest'Ordine sublima,

Facciam pur con nostre rime,

Che ciscun di noi s'addestri

A tirar colpi novelli

In onore dei Fratelli.

 

Sono tutti curiosi

Di saper nostri lavori;

Ma farem dei nostri cuori,

I segreti così ascosi,

Che neppur sia noto a quelli

Come bevono i Fratelli.

 

Quei che vantan nostri segni

Stolti son qual Uom che crede

Di saper ciò che non vede,

E mai pur saremmo degni

Noverarci tra di quelli

Senza il titol di Fratelli.

 

Ma la nostra scienza tutta

Sull'amore e l'equitate,

Sull'aver d'altro pietate,

Sul far bene è sol costrutta.

Nè mai fuor di tai livelli

Va la norma dei Fratelli.

 

Ogni etade ed ogni suolo

Visti ha prenci e Regi a schiere

Cambiar l'armi lor guerriere

Per un semplice grembiuolo,

E vestirlo e farsi belli

Del gran nome di Fratelli.

 

Se tra noi luogo non hanno

Le tue Ninfe, Amor, perdona;

Ch'ove il tuo nome risuona,

Tutto è colpa e tutto è inganno,

Nè tener san donne imbelli

Il segreto dei Fratelli.

 

CORO

Via, stringiamci mano a mano

E teniamci saldi insieme,

A dispetto di chi freme,

Per tal nodo almo e sovrano,

E così si rinnovelli

Quest'unione de' Fratelli.

 

                               Anonimo 1750

 

 

 

     

<Nel Seicento, nella Sicilia del feudo, e più specificamente in quel di Gangi (Università sotto l’egida feudale dei nobili Graffeo e poi dei Valguarnera), una serie di famiglie ne sostituirono altre al vertice della vita politica locale. Tra queste quella dei Bongiorno […] Sull’ascesa economica e sociale di tale famiglia esistono numerosi riscontri. Essa poteva avere avuto origini artigianali o medio “borghesi”, emergendo così in seno alla comunità locale tra i tanti Bongiorno presenti a Gangi in età moderna o essere originaria di altri paesi siciliani. Ricordo di essermi imbattuto anni fa, nel corso delle mie ricerche archivistiche, in un documento che registra la presenza a Gangi tra Cinquecento e Seicento di un Bongiorno (forse Antonio) originario di un altro paese, mi pare del messinese, ma non di Patti, come riporta un cultore di storia locale […]. [1] È però da provarne in questo caso la connessione genealogica con i futuri baroni Bongiorno (le cui origini certe si evidenziano nei documenti alla metà del XVII secolo) […]  [2] Appare una precisa volontà da parte dei Bongiorno, in modo particolare del nobile e laico Francesco Benedetto di inserire una cosmografia simbolica di tipo massonico [nda nel palazzo da lui stesso fatto costruire, per sua dimora, a Gangi]. Questa gli derivava dai contatti col mondo palermitano ed anche napoletano (rapporti commerciali legavano la nobile famiglia con quell’ambito geografico da tempo: ingenti partite di formaggio vennero vendute a più riprese a mercanti provenienti da quell’area geografica, tra questi un tale Surgi [nda probabilmente anche bozzoli di seta e seta grezza]) dove l’aristocrazia ed il mondo delle accademie erano largamente pervase di massonismo e di chiara ed aperta adesione a tale “setta” […]. [3] I contatti culturali con i Paesi aperti culturalmente e con le matrici del mondo massonico erano intensi e vivi nel Settecento siciliano e madonita (Inghilterra, Francia ecc.). Locke, Leibniz (considerato a metà ’700 rosacruciano cioè protomassone), Wolff (le opere dei quali furono prese a modello della massoneria del tempo) erano noti in seno all’accademia degli Industriosi. […]

La massoneria delle origini (per vari studiosi nata intorno alla metà del XVII secolo), i cui echi sembrano essere stati recuperati dagli Industriosi di Gangi, si ispirava a Dio ed alla SS. Trinità (peraltro venerata e festeggiata religiosamente dal popolo e dal clero nella Gangi del ’700). Questa usava delle formule prettamente religiose. Le sedute massoniche inglesi si aprivano con l’invocazione, contenuta negli Old Charges: “il potere del padre celeste la saggezza del figlio glorioso e la grazia e la bontà dello Spirito Santo siano con noi in questo nostro inizio”.  [4] Spirito Santo (venerato a Gangi sin dal Cinquecento, quando una chiesa dedicata a Santa Caterina cambiò in tal senso intitolazione) richiamato, su un piano più generale, da un orientamento della massoneria francese verso la metà del XVIII secolo. Si ricordi che allora a Napoli (e dunque anche in Sicilia) si realizzava una sintesi ed un incontro tra la massoneria aristocratica e quella borghese grazie alla mediazione di Raimondo di Sangro che fu Gran Maestro […]. Una sintesi, questa, fatta propria dall’iconografia e dalle opere, e quindi dallo spirito accademico gangitano (per finalità politico-sociali). Un accostamento e riavvicinamento tra segmenti delle gerarchie clericali e della massoneria (se mai i due mondi allora fossero stati completamente divisi e separati, ma in realtà non era proprio così visto che si poteva essere giasenisti, benedettini e nel contempo massoni) fu tentato in Francia (ma non fu il solo esempio) dal Gran Maestro Pasqually. Questi infatti “aveva avuto cura di coprire la sua mercanzia cabalistica con la bandiera cristiana”. [5] Ha notato in tal senso Le Forestier: “dal punto di vista teologico, il fatalismo radicale che condannava ad un’eterna privazione la posterità mistica di Caino ricordava in modo evidente l’eredità giansenista condannata dalla Chiesa cattolica, che insegna come tutti i peccatori di buona volontà possono essere salvati”.[6] […]

E la lettura giornaliera dell’ufficio dello Spirito Santo […] era consigliata anzi ordinata dal Pasqually ai suoi adepti e desunta dal “Piccolo Libro del cristiano nella pratica del servitore di Dio o della Chiesa”. […] (al di là che i Rosacroce potessero essere definibili massoni o no, questione controversa, questa, funsero comunque da motivo ispiratore delle logge del tempo). Pasqually, forse un po’ ambiguamente, aveva conferito ai suoi adepti (Emuli), ammessi al grado superiore, il titolo Reaux-Croix (Rosacroce, appunto). […]

Va ricordato che negli anni Cinquanta Raimondo di Sangro puntò a ridefinire i rapporti tra massoneria e vertici della Chiesa ufficiale (nonostante condanne e reprimende papali), tentando di conciliare le due realtà, e di fissare le linee guida circa il rapporto tra mondo latomico e cabala. Scrive lo storico Giarrizzo sulla società degli Inconnus francesi, il cui padre fondatore ebbe “un ruolo anche nella diffusione della muratoria a Napoli” (Trampus). Egli sottolinea che ci fu il tentativo da parte dei suoi fondatori di promuovere la massoneria “a filosofia alchemica attraverso il recupero della cabala cristiana”> [7] […] [8]

 

 

Sulle origini della famiglia Bongiorno di Gangi, si veda la pagina web di questo sito "Blasone dei Bongiorno e brisure":

 

https://accademiaindustriosidigangifra.jimdofree.com/blasone-e-brisure/

 



[1] Cfr. Nasello S., nel suo Il Palazzo Bongiorno di Gangi. Gli affreschi di Gaspar Fumagalli, Palermo, 1968. 

[2] Cfr. https://gw.geneanet.org/mariothegreat?lang=en&pz=mario&nz=gregorio&p=francesco+benedetto&n=bongiorno. Questa  ricostruzione è utile perché falsifica, almeno in parte, un albero genealogico costruito da Farinella secondo il quale, a un certo punto, la famiglia Bongiorno si sarebbe estinta. L’altro albero genealogico che ho qui citato mostra invece che ciò non è vero, per quanto riguarda i rami femminili. Non essendomi occupato personalmente della questione, non posso che rilevare dati raccolti da altri e relative incongruenze.

[3] Cfr. AA.VV., La Sicilia del Settecento, Università di Messina, Messina 1986, vol. 2.

[4] Le Forestièr R., La massoneria templare e occultista, Atanor, vol II, Roma, p. 32.

[5] Ivi.

[6] Ivi, p. 33.

[7] Trampus A., La massoneria nell’età moderna, Laterza, Roma 2001, p. 97.

[8] Siragusa M., Un sodalizio massonico tra i monti della Sicilia interna: l’Accademia degli Industriosi di Gangi (XVIII secolo), in «Studi Storici Siciliani Semestrale di Ricerche Storiche sulla Sicilia», Anno III n. 4 – Fasc. IV, Dicembre 2016, pp. 95-98.

Ruggiero di Castiglione, come ho già rilevato in un'altra delle pagine web di questo sito, scrive che, nella seconda metà del Settecento, numerosi liberi muratori erano attivi in centri e consessi siciliani, tra cui l’Accademia degli Industriosi di Ganci [1] Quindi, non una loggia massonica della quale sia noto il pie’ di lista, ma la presenza, tra gli accademici, di massoni [2]  e anche di cultura massonica, in un'accademia protomassonica. Tale accademia, che era anticurialista, episcopalista, filogiansenista e di orientamento monarchico illuminato, si riuniva a Palazzo Bongiorno. Nel primo giorno di ciascun mese (fatta eccezione per i periodi di ferie e di villeggiatura) e in altri giorni determinati, gli Accademici Industriosi (con a capo Gandolfo Felice Bongiorno, "Principe" dell’Accademia eletto con metodo democratico, “repubblicano” nel senso di Repubblica letteraria)  [3] svolgevano la loro propaganda filogiansenistica, mediante adunanze aperte a tutta la cittadinanza. Tale attività era svolta pure in base a un “calendario liturgico” accademico (pubblicato in Rime degli Accademici Industriosi del 1769).[4] Ogni settimana, inoltre, si riunivano in forma riservata per discutere di questioni di teologia morale.[5]

 

IV. Il Principe si eligga ogni due anni col voto per lo meno di tre parti degli Accademici.

[…]

I.      La nostra Accademia degl’Industriosi di Ganci riconosce la sua protezione dal sovrano Padrocinio dello Spirito Santo, e dalla sua Santissima Sposa Maria Vergine Assunta in Cielo; onde in tali giorni vale a dire nella Pasqua di Pentecoste, e a’ 15 di Agosto non si lasci di celebrarne le lodi con pubblica solenne Accademia.

[…]

XI. Oltre le due Accademie solenni della Pasqua di Pentecoste, e dell’Assunzione di Maria Vergine; vi siano ancora due Adunanze straordinarie, vale a dire negli ultimi giorni di Carnovale, per la Cicalata, e nella Settimana maggiore per onorarsi la Passione del nostro Divin Redentore; e se ne permette pur anche qualche altra nella morte de’ nostri Protettori, o di qualche rinomato Accademico.

[…]

V.   Sia obbligo del Principe di fare adunare due volte il mese l’Accademia (eccettuandone i mesi di ferie, e di villeggiatura), cioè in ogni primo giorno del mese per far rappresentare pubblicamente qualche discorso sopra le buone scienze, ed arti per indagare il vero di esse, e correggerne gli abusi, se mai ve ne fossero […].[6]

 

Cicalata (Carnovale): il riferimento è alla corruzione umana, alla “dilettazione terrestre”, al tema dionisiaco. In Rime degli Accademici Industriosi del 1769 c’è una Corona di Sonetti recitata proprio in occasione del Carnovale e della Cicalata, dall’accademico Giuseppe Fedele Vitale (Secretario dell’accademia), dal titolo «Le nozze di Bacco».

Spirito Santo e Maria Vergine Santissima Sposa dello Spirito Santo Assunta in Cielo (la bambinella alma):[7] è il tema della “dilettazione celeste”, il tema apollineo.

A mediare tra il tema della “dilettazione terrestre” e il tema della “dilettazione celeste” c’è il Divin Redentore.

Di Cataldo Naselli, Sonetto (dalla Corona di Sonetti «Allo Spirito Santo», in Rime del 1769):

 

Fra lo immenso splendor vasto, e profondo / Di tuo divin, bollente, eterno Lume, / Veggio l’alma Pietà stender le piume / In Terra, e in Ciel, nell’universo Mondo. / Giaceva l’Uom del primo fallo al pondo, / Quand’Ella venir feo del sommo Nume / Il Figlio, e dall’eterno ampio volume, / Cassò la pena, e restò l’Uom giocondo. / E morendo di Dio l’unico pegno / Per opra tua, divino Amor possente, / Placato fu del Genitor lo sdegno./ Furon l’alme dal Figlio, è ver, redente; / Ma il trionfo a compir fu solo impegno / Dell’ineffabil tua gran Luce ardente.

 

«Furon l’alme dal Figlio, è ver, redente; / Ma il trionfo a compir fu-è solo impegno / Dell’ineffabil tua gran Luce ardente» = Spirito Santo: sola gratia sola pistis; Fides sine operibus = dilettazione celeste vs/ dilettazione terrestre; dilettazione terrestre = Mortua est.

Ci sono anche: un quadro del 1762, come ho già segnalato in un'altra pagina web di questo sito, sul tema delle eresie, esposto nella Chiesa Madre di Gangi (al quale è stato dato il titolo: “Santa Ecclesiae Navis”, ma che io chiamo "La nave degli eretici"); squadra (fatta di tre stelle) e compasso in un quadro della seconda metà del Settecento contenente il ritratto di un santo;[8] un quadro di san Michele Arcangelo che tiene sotto il suo piede sinistro una pietra grezza e che guarda, in alto, dall’altro lato, verso un triangolo luminoso con occhio centrale, anch’esso della seconda metà del Settecento e nelle disponibilità della chiesa Madre. [9] Fino a poco tempo fa il quadro era esposto nella sagrestia della chiesa della Badia (ex convento benedettino del quale, a quel tempo, era plenipotenziario l’abate Cataldo Lucio Bongiorno). Mi hanno riferito che è stato prelevato per consentirne il restauto.

Il segretario degli Industriosi era Giuseppe Fedele Vitale, accademico etneo ai tempi dei suoi studi in medicina a Catania – dove si perfezionò dopo la laurea, per quattro anni consecutivi, con il professor Balsamo –, oltre che accademico ereino, del buongusto e arcade.[10] La famiglia Vitale era protetta dal barone Francesco Benedetto Bongiorno, il quale tenne al fonte battesimale il piccolo Giuseppe Fedele.[11] L’Accademia dei Pastori Etnei, al tempo in cui era frequentata da Giuseppe Fedele Vitale (che studiava Medicina all’Università di Catania) e dal fratello Roderico (che studiava Diritto), era un noto centro di reclutamento protomassonico e di divulgazione del pensiero protomassonico, che si riuniva a Catania, presso il palazzo nobiliare del futuro Maestro Venerabile, Gran Maestro di tutte le logge catanesi,  Ignazio Paternò (Castello), che l’aveva fondata:[12] Palazzo Biscari. 

Le finalità e il linguaggio massonico sono ben presenti anche a Palazzo Bongiorno. La decorazione del piano nobile venne affidata al pittore romano Gaspare Fumagalli [13] (aiutato, non si sa ancora bene perché, in che modo e in che misura, da Pietro Martorana), attivo a Palermo intorno alla metà del XVIII secolo, che realizzò gli affreschi a cavallo del 1757  [14] firmandoli (Gaspar / Fumagalli / Romanus). Come risulta da un documento notarile dell’epoca,[15] fu lo stesso barone Francesco Benedetto Bongiorno a concertare con Fumagalli le icone dei dipinti degli affreschi. Negli stessi anni in cui furono terminati i lavori di edificazione e fu affrescato, il palazzo divenne sede dell’Accademia degli Industriosi (Accademia Enguina).

 

II.   Al celeste validissimo sostegno [Spirito Santo e Sua Santissima Sposa Maria Vergine Assunta in Cielo] si aggiunga ancora l’umano; Vi siano dunque due Protettori, che possano procurare i vantaggi dell’Accademia [degli Industriosi di Ganci]. Uno esser deve de’ più distinti del Paese [il barone Francesco Benedetto Bongiorno], nella di cui casa [Palazzo Bongiorno] far si devono i Congressi Accademici [le adunanze pubbliche e private]; l’altro sia un ragguardevole Personaggio forestiere [Tommaso Moncada,[16] prima, e Gabriello Maria Di Blasi, dopo, entrambi arcivescovi di Messina. Successivamente alla morte di Francesco Benedetto Bongiorno, non sappiamo se l’accademia elesse nuovi protettori forestieri. In Rime, si fa riferimento anche a un misteriosoo mecenate: Monsignor N.N, del quale però non si sa nè chi fosse né quando fu eletto mecenate dell’accademia]. [17]

III.Si eliggano questi Protettori dagli Ufficiali dell’Accademia, cioè dal Principe [Gandolfo Felice Bongiorno], da’ due Censori, dal Secretario [Giuseppe Fedele Vitale], e Prosecretario.[18]

 

Ma da chi fu fondata l’Accademia degli Industriosi? Chi volle che nascesse? Come ho scritto anche in un'altra pagina web di questo sito, qualcuno sostiene che fu fondata da Gandolfo Felice  Bongiorno. Naselli però, con maggiore cognizione di causa, scrive che fu «fondata e protetta dai fratelli Bongiorno [da tutti e tre, cioè, incluso Cataldo Lucio], ma in  particolar modo da D. Francesco Benedetto[19] cosa («in modo particolare da D. Francesco Benedetto Bongiorno») ben più accettabile della vulgata secondo la quale essa fu fondata da Gandolfo  Felice Bongiorno, o da quest’ultimo (in tal modo sovrastimato nel suo effettivo ruolo storico-sociale) unitamente al fratello Francesco Benedetto (in questo modo sottostimato). 

In realtà è  lo stesso Gandolfo Felice Bongiorno a confessare che l’accademia fu fondata dal fratello Francesco Benedetto. Egli,  infatti, scrive: «mio Fratello il Barone del Cacchiamo […] di questa Accademia potea definirsi a ragione il  Fondatore, e Sostenitore». [20] Dai documenti a noi pervenuti, risulta anche che il ruolo più elevato, all’interno dell’accademia, è cioè quello di Principe, fu assunto e svolto, certamente anche per volontà di Francesco Benedetto, in modo elettivo, dal fratello Gandolfo Felice  (assai addentro in questioni di teologia morale e di canoni letterari).

Quest’ultimo assunse, all’interno dell’accademia, anche le funzioni che prima erano state del fratello Francesco  Benedetto, soltanto dopo la di lui morte, avvenuta nel 1767. Che fosse il barone Francesco Benedetto a finanziare (e cioè a decidere di rendere di pubblico dominio), a proprie spese,  le pubblicazioni delle opere degli Accademici Industriosi (e quindi a avere l’ultima parola decisiva circa la  pubblicazione delle stesse) è Giuseppe Fedele Vitale a dircelo: «Industri valorosi Accademici,  voi pur troppo il vedeste, quanto sollecito Egli vi animava alla valente gara, e carriera, e come delle vostre gloriose fatiche si  compiaceva, quando, per eternar vostre imprese, pensaste alla fine di pubblicarle alla luce, e tanto de’ comuni applausi godea  che volle […] a proprie spese avvalorarne le stampe [21]

L’accademia, che, come ho già scritto in un'altra pagina web di questo sito, era Colonia dell’ Accademia Palermitana del Buon Gusto (lo divenne nel mese di gennaio del 1756) [22] e dell’Arcadia (a far data dal mese di dicembre del 1771),  [23] aveva per corpo dell’Impresa un Oriuolo (orologio) e per motto (combinato con il corpo dell’Impresa) [24] Ex pondere motus. 

 

"Impresa" dell'accademia dopo che diventò "Seconda Colonia" dell'Accademia Palermitana del Buon Gusto e prima che diventasse Colonia Arcadia Enguina
"Impresa" dell'accademia dopo che diventò "Seconda Colonia" dell'Accademia Palermitana del Buon Gusto e prima che diventasse Colonia Arcadia Enguina
"Impresa" dell'accademia quando divenne Colonia Arcadia Enguina
"Impresa" dell'accademia quando divenne Colonia Arcadia Enguina
L'Oriuolo in un'icona massonica del Settecento (colonna a centro con anche nodi semplici e pavimento a scacchi). Si notino il Sole, la Lune e il Maestro Massone (MM) Illuminato
L'Oriuolo in un'icona massonica del Settecento (colonna a centro con anche nodi semplici e pavimento a scacchi). Si notino il Sole, la Lune e il Maestro Massone (MM) Illuminato

Di tale Impresa, prima ancora che fosse adottata dall’Accademia degli Industriosi di Ganci e dai Bongiorno, aveva scritto Dominique Bouhours, nella sua opera Trattenimenti di Aristo et Egidio, opera edita in francese, più volte ripubblicata e poi tradotta in italiano. Nel Trattenimento V, Le Imprese, a p. 374, Bouhours aveva scritto "Un Oriuolo a ruote, con queste parole, Ex pondere motus, significa che l'amore è il peso che dà il moto all'anima". [25]

Su questi argomenti si veda: F.P. Pinello, L'amore è il peso che dà il moto all'anima, pp. 591 ss.

Per gli Accademici Industriosi, che erano filogiansenisti e di cultura massonica, l’Amore era lo Spirito Santo [26] e lo Spirito Santo era collegato alla misura del tempo, e cioè all’Oriuolo, all'orologio (E i tempi alterni, e reggi il sempre, e il mai), in termini di Economia Trinitaria interna e esterna.

 

Di Mario Di Chiara Sonetto [Corona “Allo Spirito Santo”]: Santo, eterno, immortale, Amor fecondo, / Che reggi il tutto, e ‘l tutto vedi, e sai, / Nell’altissimo fuoco ampio, e profondo / Chi comprender ti può se immerso stai? / Tratta dall’atra oscurità, giocondo / All’informe natura il manto dai / E i Cieli abbelli, ed arricchisci il Mondo, / E i tempi alterni, e reggi il sempre, e il mai. / Vedo, che al tuo divino ampio splendore, /Penetrando il futuro, immantinente / Trasser l’arcane cifre i Padri fuore. / Vedo …. E che veder puote Uomo impotente? / Vedo solo, che s’empie di stupore, / Quando a Te s’erge la mia bassa mente. [27]

 

 

Bouhours era noto in Italia, e in Sicilia, per la polemica con l'Orsi che riguardava il confronto tra la tradizione letteraria francese e quella italiana, con particolare riguardo ai Canoni d'Arcadia (Muratori, Maffei, Lemene, Ceva, Quadrio).  [28]

 

«Beninteso, a patto che si liberi l’Arcadia da un invalso cliché riduttivo, che rimonta alla cultura risorgimentale (si pensi a De Sanctis) ma che già Benedetto Croce e poi Mario Fubini hanno provveduto a liquidare: il cliché deteriore delle pastorellerie e dell’idillismo bucolico. Sotto la superficie dei riti pastorali che si celebrano nel Bosco Parrasio, a monte di una liturgia accademica che è parsa vuota e risibile, [nda oltre alla questioni ermetico-alchemiche delle quali c'è abbondanza di dati in queste pagine web] si deve scorgere qualcosa di più serio: una strategia di aggregazione e di autoidentificazione, che il ceto intellettuale italiano mette in atto, allora, per istituzionalizzare una rete di rapporti, e per rispondere a un’esigenza intensamente avvertita di visibilità.

Ora, nel 1704, a Napoli (ma in realtà a Venezia), Lodovico Antonio Muratori pubblicava un’opera pseudonima, i Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia esposti al pubblico da Lamindo Pritanio. Con essi proponeva una sorta di superiore coordinamento della rete accademica nazionale, che chiamava appunto «Repubblica letteraria d’Italia».[29] Suo scopo era riformare in direzione erudita la decaduta cultura italiana. In ciò reagiva alla perdita di una primazia culturale: una primazia che fino al Rinascimento era stata tutta italiana, ma che poi era migrata Oltralpe, configurando una vera e propria translatio studii. Non a caso, nel delineare questa «Repubblica letteraria d’Italia», Muratori si ispirava al modello francese, costituito dall’Académie Française. E ciò anche se riconosceva come pressoché impossibile, da noi, l’importazione di quel modello. All’Italia divisa mancava infatti una condizione strutturale: la presenza, capillare e totalizzante, di una monarchia forte e accentratrice come quella di Luigi XIV, le Roi Soleil; un’istituzione capace di dar corso, con un efficace mecenatismo, a una politica culturale fortemente dirigistica: con l’intenzione evidente di organizzare il consenso intellettuale intorno alla corona, sia entro che fuori dai confini del regno. […]

Ma sia Gravina che Muratori, come organizzatori di cultura (o per lo meno di cultura accademica), falliscono […] Invece, l’Arcadia ‘custodita’ dall’abate Crescimbeni attecchisce di fatto sull’intero territorio nazionale […] L’Arcadia romana, dunque, sembra costituire la sola forma istituzionale in cui possa calarsi, in Italia, la République des lettres».[30] La massoneria cooptava i liberi muratori anche da questa rete nazionale e, in particolari e determinate circostanze (necessità di sospendere a tempo indeterminato i lavori delle officine, per ragioni di opportunità e di prudenza) transitava in esse (almeno alcuni massoni lo facevano). Si veda a questo proposito F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, Bonanno 2020.

Gandolfo Felice Bongiorno, nel suo discorso Ai Savj Lettori, in Rime degli Accademici Industriosi del 1769, come “dirò” meglio dopo, faceva espressamente riferimento alla questione del canone dei Sonetti a Corona (intessuti come una specie di Catena d’Unione massonica), citando espressamente il Crescimbeni (uno dei padri fondatori dell’Arcadia), il Ceva, il Quadrio, l’Andrucci (pseudonimo utilizzato dal Quadrio), mostrando, così facendo, di essere perfettamente a conoscenza della polemica tra letterati italiani e “oltremontani letterati”, e cioè francesi. [31] In quello stesso discorso, a p. IV, Bongiorno, indicando un collegamento tra Palermo e la Francia, citava in modo esteso ed espressamente, a proposito di premj (Sonetti a Corona, o Corona di Sonetti) e di uomini da premiare e da imitare secondo buon gusto (nel contesto della celebrazione accademica del proprio fratello carnale Francesco Benedetto, la cui morte, nel 1767, era stata motivo e causa della pubblicazione a stampa dell’opera Rime degli Accademici Industriosi del 1769), il «celebre Signor Titon du Tille(Gloria, e splendore non meno della Francia, ove nacque, che della nostra Palermitana Accademia del Buon Gusto, alla quale volle essere ascritto)». [32]

Il tema dei premj e delle Corone di Sonetti è intimamente legato, nell’opera Rime degli Accademici Industriosi, alla vera nobiltà. Ne tratta Giuseppe Fedele Vitale nell’Orazione in morte del barone Francesco Benedetto Bongiorno.

Dopo la prima e la seconda parte dell’Orazione, a partire da pag. 7 si sviluppa  l’esecuzione del dipinto del barone. Come scrive Vitale: “l’alta immagin richiamo [evoco e dipingo] del sincero suo trattamento. Della modesta sua maniera di vivere, dello affabile suo conversare, e gentile, o quel nobile nativo aborrimento alla indiscreta nocevole adulazione” …“un Protettore un Eroe, il quale tra il fascino delle ricchezze ha saputo sì bene, e con senno coltivar la virtù, che l’Uomo ottimo si rese nella più rigida osservanza della Religione, e il più distinto nel sempre lodevole amor della Patria”.

A pagg. 10-12, Vitale recita: “Eccovi dunque il nostro Eroe affaticato ad unir le discordie, e a declamare contro le iniquità, a fuggire le adulazioni, cose [queste] non da ordinario mezzano spirito nascenti, [perché si tratta di] veri nativi parti di un sincero magnanimo cuore, di un ottimo esempio di Religione. E pure …. Gran Dio! Dio giusto regolatore delle umane vicende! Chi sa qual fosse quella vostra santa imperscrutabile idea, che vi mosse a privarcene cotanto a buon’ora? […] Egli è vero, che non ebbe la sorte di godere una lieta stagione di sanità per impiegarsi a tutt’uomo, come desiderato lo avrebbe a nostro comune letterario vantaggio, e all’ingrandimento, e decoro [nda si faccia particolare attenzione al tema del Decoro: F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.] di nostra Patria, ma è vero puranche, che paziente Egli, ed uniformato alla mano [di Dio] disponitrice del bene, l’influssi a sostenere de’ morbi, che a gagliardi sproni, per parecchie carriere d’anni nel di Lui corpo correvano; era il grande Eroe pronto sempre, e con religiosa indefessa cura i pietosi sentimenti, fin dalla verde sua tenera età nel di Lui cuore santamente cresciuti, a fomentare, ed ingrandire mirabilmente. Credalo, chi vuole, dunque, che la pietà [cfr. qui Vitale rinvia a S. Agust. Lib. 1. de lib. Arbitr.  e Just. Lips. Lib. I. Opusc.] qual unico principio dell’ottima stima di Dio, non sappia vivere fuori delle strettezze delle solitudini, e de’ squallori de’ Chiostri, e de’ silenzi delle contemplazioni. Sa ben ella meglio dimorare, e vivere su gli alti edifici e palazzi, e maggiore quivi a Dio gloria recar puote, ed accrescere. E venghi pure, e se può ci contrasti quel maligno prosuntuoso spirito di contraddizione, che Francesco Benedetto Bongiorno, un vero esempio non fusse stato della più esatta religione?”.

Qui, adesso, c’è un passaggio interessante, perché Vitale introduce un argomento circa il linguaggio, con riferimento ai “modesti trattamenti”, alla “moderazione nel parlare”, alla “sincerità nei trafficoni maneggi”. È come se Vitale volesse dire che bisogna fare molta attenzione alle parole che si dicono. Egli scrive: “Difficile è (chi va’ di voi, che non sappia?) [nda. e cioè: voi tutti lo sapete bene che è difficile] la virtù del tacere; e dotto, e prudente addiviene l’Uomo in moderare il loquace parlare; lo che [la qual cosa] a meraviglia conferma il Principe di Peripato [Aristotele]. Richiesto un giorno Aristotele, [su] qual mai si fosse l’atto di maggior prudenza, che usar si potesse dall’Uomo, essere quello [Aristotele], rispose, di tacere ciò, che non è da dire”.

«L’essere», dice Vitale, «è ordinato all’azione» e, circa le parole, necessita prudenza. Sono la Prudenza, la Pietà, la Modestia, la Mansuetudine, il cuore Magnanimo (si tratta anche di virtù massoniche) che rendono gli uomini effigiati modelli della Religione (il filogiansenismo). È attraverso la Letteratura (la Poesia), e tutto ciò che intorno a essa ruota, che si diventa eterni (tra gli uomini mortali): “Egli solo, il solo Francesco, non altrimenti, che folta annosa quercia, la quale nel seno finanche delle più eccelse Nubi inoltra i superbi suoi rami, e distende, umili piante sotto l’ombra materna, ed attorno alle tortuose radici accoglie, e nutrisce, il benigno glorioso manto della sua protezione slargando, poté Voi tutti, o valenti Accademici, e da nocivi umori d’invidia difendere, e su i poggi dell’onor vero guidare, per rendervi immortali, ed eterni. Or questa sì, ch’è quella Nobiltà lodevole, che si conquista colla propria virtù, e che a guisa di chiara fulgentissima stella, mai la sua luce non perde. [33]

E Domeni Schiavo, Direttore dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Socio Colombario di Firenze e Accademico Augusto di Perugia, in una sua Dissertazione dal titolo Saggio sopra la Storia letteraria e le antiche Accademje della Città di Palermo, E spezialmente dell’Origine, Istituto e Progresso dell’Accademia del Buon Gusto, scrive (ribadisco che, come scrive Gandolfo Felice Bongiorno le Dissertazioni  pubblicate in questo volume del 1755 dall’Accademia Palermitana del Buon Gusto per l’Accademia degli Industriosi di Gangi costituivano norma):

 

Fra tutti gli umani affetti «che occupar profondamente si veggono il cuore dell’Uomo, quello senza alcun dubbio mi sembra ottener sopra gli altri maggior forza, e vigore, che vien destinato a sostenere lo splendor della Patria, ed a promuoverne il più stabile ingrandimento. […] Che anzi per avviso di coloro, che àn ridotto a’ fonti della giustizia naturale le materie del diritto, viene sì altamente a difenderli il vasto Tuo impero, che può a ragione riscuoter da noi la più nobile parte di noi medesimi l’animo nostro, che tutto inteso a rendersi vieppiù adorno, e perfètto coll’acquisto delle belle arti, e scienze recar possa alla diletta sua Patria l’onorevole pregio di accogliere nel di lei seno gli Uomini più distinti nel merito e nell’eroica virtùde. Qual cosa per tanto per le più colte Repubbliche più profittevole, e vantaggiosa, che lo stabilire qualche ben ordinata Letteraria Adunanza, nella quale dall’altrui studio possono gli altri per fecondar la sua mente raccogliere le più scelte dottrine; ed ove risvegliandosi coll’altrui esempio la più fervida emulazione,  e coll’ardore della contesa 1’avidità della gloria, non suole mai cosa alcuna proporsi, che prima non sia strettamente disaminata col giudizio più esatto, e colla critica più severa; e quindi con sì bei mezzi dilatarsi il felice regno delle scienze, e la copia maggiore de’ Letterati. […] Or ecco, Accademici vinuosissimi, quel nobil disegno, che spinger dovette i nostri dotti Concittadini, ne’ presenti non meno, che ne’ tempi già trasandati a fondare in quella noslra felicissima Patria le più erudite Accademie. [34]

 

Questo è il succo e la sostanza anche della Dissertazione di Gandolfo Felice Bongiorno, principe dell’Accademia degli Industriosi di Gangi, «A’ Savj Lettori», in Rime degli Accademici Industriosi del 1769: quel nobil disegno. [35] In tale opoera è trattata anche la nobiltà ereditaria di sangue, in un’orazione di Gandolfo Felice Bongiorno per la nascita dell’Infante Carlo, figlio di Ferdinando di Borbone e Maria Carolina d’Austria. [36] Tale tema è ben presente anche in un’opera scritta da Nicola Gaetani duca di Laurenzana,[37] nonno paterno del principe di San Severo Raimondo de’ Sangro, per l’educazione dei nipoti. In tale opera, come scrive Elvira Chiosi, «deciso è l’avvertimento a sfuggire “la cieca passione” proveniente dalla nobiltà ereditaria”, e a praticare  “tutte quelle virtù finalmente, che rendon l’huomo immortale, e gli dan l’arte da dominare alle proprie passioni” consentendogli di accettare serenamente la morte. Consapevole, per ampia cultura e per esperienza, della fine del cosiddetto “tempo dei signori”, l’ormai anziano duca affidava ai suoi eredi un preciso messaggio, prontamente raccolto da Raimondo de’ Sangro, che avrebbe restituito alla nobiltà, investita in tutta Europa da un’inarrestabile crisi di prestigio e di identità, una funzione di preminenza nella guida della Fratellanza. Quel bisogno di “perpetuità”, che “l’umana industria” si ingegna a dare alle cose “con l’aiuto dell’arte” soprattutto nei monumenti funebri, si sarebbe espresso nella trasformazione della Cappella gentilizia in Tempio massonico, percorso iniziatico per l’edificazione dell’uomo nuovo e di una società rigenerata». [38] È ciò che è accaduto anche a Palazzo Bongiorno, sede dell’Accademia degli Industriosi.

Combinando quanto scrive Gandolfo Felice Bongiorno, all’inizio di un suo discorso sui premj e sulle Corone di Sonetti, [39] con un passaggio della descrizione del «Decoro» dell’Iconologia di Cesare Ripa, presa da un’edizione della seconda metà del Settecento curata dall’Abate Cesare Orlandi, su incarico di Raimondo de’ Sangro, [40] si comprende che le Corone di Sonetti hanno a che fare proprio con una particolare forma di questa nuova nobiltà: il “Decoro”.

 

Gli Uomini, essendo invero riguardo a se stessi pienamente uguali, [41] non ebbero dalla Natura imposte, secondo la discorre il gran Filosofo Cristiano Volfio [Christian Wolff], se non le medesime obbligazioni, e le stesse leggi. Le prerogative, e le precedenze, che vantano taluni sopra degli altri, dal diritto sol delle Genti, dall’osservanza, e fatto degli Uomini più tosto, e per le particolari azioni, onde si segnalarono. Or siccome la ragione ci obbliga, e ci addita a far quelle azioni, che alla perfezione umana, ed allo stato nostro felicità arrecar possono, e contentezza; così per vie meglio gli Uomini a quelle invogliare i proprj compagni, ànno le più culte Nazioni, e le più sagge Repubbliche con marche di onori, e con singolarità di premj onorati fra tutti quei Cittadini, che per nobili, e segnalate operazioni si distinsero sopra gli altri; e quindi isvegliare in tutti quell’appetito innato in Noi verso la virtù, che amore da Platone venne nomato, e che è la vera sorgente di ogni virtuosa azione […] Ed ecco spiegata in breve l’origine delle ricompense, e de’ premj, che sempremai si son fatte alle più distinte eroiche azioni degli Uomini, e tra questi non ottiene luogo quello delle Corone.[42]

 

[…] il Decoro è ornamento della vita umana. È onesto, perché il Decoro sta sempre unito con l’onesto: imperciocché il Decoro, siccome dottamente discorre Marco Tullio nel primo degli offizj, generalmente si piglia per quello, che in ogni onestà consiste: ed è di due sorti, perché a questo Decoro generico ve n’è soggetto un altro, che appartiene a ciascuna parte della onestà.[43]

 

Le due sorti del “Decoro” sono, cioè, l’una naturale e l’altra sociale. Su questo punto, si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit. Sul discorso di Gandolfo Felice Bongiorno sui premj e sulle Corone di Sonetti, tornerò dopo, in questa stessa pagina web.

Ritornando all’Oriuolo, che era nel corpo dell’Impresa degli Accademici Industriosi, bisogna rilevare che esso alludeva all’Universo (Macrocosmo) mosso, come un’Ingegnosa Industre Macchina, [44] dall’istancabile Eterna Mente di DEUS UNUS, e cioè dal Grande Orologiaio [45] (una metafora del massonico Grande Architetto dell’Universo, GADU). Che l’Oriuolo non sia un semplice orologio, risulta evidente proprio dall’Industre Macchina dell’Universo, metafora utilizzata per Francesco Benedetto Bongiorno, e dalla meridiana, metafora utilizzata per re Ferdinando.

 

Sì valorosi Accademici [Industriosi], siccome nella ingegnosa industre macchina, con cui l’Uomo il corso del raggiante luminoso Pianeta misura, le cento ineguali parti di simetria, di figura, di ufficio si raccolgono insieme, onde al famoso ordegno il moto avvalorare, e la possa; tutte, e quante le folgoranti sue doti [di Francesco Benedetto Bongiorno] con la dolce industria, saggiamente spartendo, quell’accurato prudente senno mostrò, il quale sol pensa, come, e per qual via possa tirare a se le Città, perché lo ascolti, e impari qual debba essere l’animo di un buon Cittadino verso la Patria: onde non altrimenti, che adopra appo il Mondo i suoi portentosi spettacoli il Sole verso la Patria l’illustre Difonto le sue valorose comparte. Guardate ivi il Sole, che per l’Universo gl’infiniti luminosi raggi diffonde, i quali ripercossi, e diversamente rifratti sull’erbe, sugli arboscelli, e su’ fiori i varj colori disvela, di cui secondo la primigenia loro tessitura adorni vennero dall’onnipotente Facitore del tutto: ecco negli aquei globetti, che una, ed altra volta riflette i radioli colorati, e rifrange; onde per la ineguale riflessione, e rifrazione d’angoli differenti diversi coni formando in tante fascie circolari disposti, la bella aurora a’ nostri occhi disvela messaggiera di pace: là nella Luna il chiaro lume tramanda, che in lei riflettendo il suo raggio, fa splendere la medesima per un riverberato fulgore: ivi per vitrea palla passando, o per doppio cristallo, scioglie portentosamente i metalli, arde i panni, incende la polvere, e tutto il Mondo a racconsolare già mosso, i congelati umori dissolve, la Terra, il Cielo rischiara, le Città, i Prati, le Campagne, le Ville, riscalda, indora, rinvigorisce, sollieva: così senza meno, verso la Patria, il senno di Francesco Benedetto Bongiorno: declama ora contro le iniquità, le ingiustizie, le oppressioni, e come malagevoli mostri, l’odio, l’ira, le vendette riguarda, ora i Letterati a far maggiormente risplendere sotto il suo riguardevole manto accoglie, rinvigorisce, sostiene.[46]

 

Quindi il Savjssimo Ferdinando, come s’esperta mano in un piano segna regolate linee e lunghe, e brevi da’ numeri terminate attorno in ago, che fissa, dove riflettendo il Sole i raggi suoi, coll’ombra, che forma il corso del giorno esattamente misura; Così Egli i doveri della Società con sacrosante leggi lineando, Astrea leva per asse, il quale alla riflessa luce di sue Virtù i gradi del viver toccando coll’ombra, il buon ordine distingue, e rilieva del merito il veritiero pondo; ed Egli liberale il premio, e porge clemente e pietoso la pena a ciascuno.[47]

 

L’Accademia degli Industriosi di Ganci, come ho già riportato in precedenza (nella pagina web di questo sito dedicata alle schede biografiche di Francesco Benedetto e di Cataldo Lucio Bongiorno), ma giova riprendere qui il concetto, era una cellula filogiansenista [48] che si attivò a Gangi, relativamente alla pubblicazione di opere a stampa, nel 1758 (data di pubblicazione a stampa della sua prima opera, a Palermo) e che restò attiva almeno fino al 1777 (data di pubblicazione a stampa dell’ultima sua opera, sempre a Palermo). Per quanto riguarda l’organizzazione di adunanze pubbliche, verosimilmente si attivò anche prima del 1758. Protetta da Tommaso Moncada de’ principi di Calvaruso (si veda il capitolo sui fratelli Moncada), prima, e dal noto e potente giansenista Gabriello Maria Di Blasi, dopo, entrambi arcivescovi di Messina, oltre che da Francesco Benedetto Bongiorno, fino al 1767, anno della sua morte, nonché assai vicina a certi ambienti di Napoli e alla corona reale,[49] essa era inserita in un più ampio circuito siciliano giansenista e filogiansenista, molte volte anche massonico e filomassonico, che fu attivo, in buona parte della Sicilia, proprio nel trentennio 1750-1770 (fino alla fine degli anni Settanta).

In quel periodo, i vescovi delle più importanti diocesi siciliane erano giansenisti. [50] L’attività di propaganda di tale circuito siciliano giansenista ebbe inizio, a Palermo, grazie ai domenicani, ai benedettini e ai quesnellisti ed era effettuata mediante la pubblicazione di opere a stampa. Nel 1758 (data di pubblicazione a stampa della prima opera dell’Accademia degli Industriosi) tale circuito era assai potente, mentre nel 1777 (data di pubblicazione dell’ultima opera a stampa dell’Accademia degli Industriosi di Gangi) cominciò a mostrare chiari sintomi di cedimento. Alla fine degli anni 70 esso risultò sconfitto, in tutta la Sicilia. [51]

Gli Accademici Industriosi di Ganci facevano propaganda essoterica filogiansenistica e, allo stesso tempo, lavoravano esotericamente su loro stessi, e cioè sulla loro elevazione verso il Cielo, il Sole e la Luce, grazie allo Spirito Santo. Essi cioè, nel costruire un tempio sociale (fondato sul Decoro, sulla Grazia, sulla Ragione, sulla Giustizia e sulla Pace) con fondamenta religiose filogiansenistiche, costruivano, allo stesso tempo, anche il loro tempio interiore, coniugando macrocosmo e microcosmo, religione (vera e esatta religione) e patria. Nel fare tale propaganda essoterica e tale lavoro esoterico su loro stessi, utilizzavano anche elementi filomassonici (tradizione iniziatica e ideale massonico di uomo: l’uomo Decoroso di nuova nobiltà).

Un “concetto morale e religioso”, come scriveva Santo Naselli nel 1968, «pervade tutti gli affreschi del Palazzo, espressione del profondo sentimento religioso di tutti i componenti la famiglia Bongiorno», [52] e cioè dei tre fratelli (Francesco Benedetto, Gandolfo Felice e Cataldo Lucio), e non del solo Cataldo Lucio, che era abate (come, invece, sostenuto da alcuni, ma senza riscontri documentali). Naselli definiva l’affresco maggiore del Palazzo “Clementia Mundi”: Trionfo del Cristianesimo. Occorre precisare, rispetto a quanto scriveva Naselli, che tale comune sentimento religioso era filogiansenista,[53] come emerge chiaramente dal sonetto dell’Accademico Industrioso Cataldo Naselli sopra riportato, da tutta l’opera Rime degli Accademici Industriosi del 1769 nel suo complesso, e dall’affresco di Palazzo Bongiorno “Fides sine operibus – Mortua est: il Divin Redentore, la Grazia, la Ragione, la Giustizia e la Corruzione umana” interpretato in sinossi con l’affresco della navata della Chiesa Santuario dello Spirito Santo di Gangi, con un dipinto su una bara in legno custodita nella “Fossa di parrini”[54] a Gangi, presso una cripta della Chiesa Madre, e mediante alcuni concetti ricavati dalle opere pubblicate a stampa dall’Accademia degli Industriosi di Gangi. [55]

Già nel 1986, Siracusano, facendo riferimento all’opera pubblicata dal Naselli nel 1968, aveva osservato che Gaspare Fumagalli, nell’affrescare Palazzo Bongiorno, si era ispirato agli affreschi del Maratti/a (Carlo) e del Chiari di Palazzo Altieri, a Roma. [56] Nel 1998, Bongiovanni, riprendendo gli input di Naselli e di Siracusano, aveva osservato che, nei dipinti almeno di un affresco di Palazzo Bongiorno (raffigurante Mesi e fasi del giorno, secondo l’interpretazione che ne aveva dato Santo Naselli), [57] Fumagalli si era rifatto esplicitamente all’Iconologia di Cesare Ripa, [58] mentre nei paesaggi, ma in modo minore, si era rifatto alle composizioni pittoriche del Locatelli. [59] Ecco cosa scrivevano Maria Concetta Di Natale, Elena Lentini e Guido Meli (della Soprintendenza dei Beni Culturali di Palermo), nel 1992, a proposito dell’affresco “Sic Floret Decoro Decus”: «La scena che si rifà al Decoro [60] vede sdoppiata in due figure la sua rappresentazione, come peraltro sembra suggerire il cartiglio mostrato da un puttino in basso che reca la scritta ‘Sic Floret Decoro Decus’. Elementi simbolici inerenti sono nell’una la pelle di leone e la gamba destra con un coturno, nell’altra la ricca veste, la corona di amaranto sul capo e il piede sinistro con lo zoccolo». [61]

Una recente ricerca da me condotta, che ha sviluppato questi input di Naselli, di Siracusano, di Bongiovanni e di Di Natale-Lentini-Meli, ha consentito di mostrare come l’affresco “Clementia Mundi: il VITRIOL” del Fumagalli in realtà sia una copia dell’affresco di Palazzo Altieri, del Maratta, “Allegoria (Trionfo o Elogio) della Clemenza”. La parte superiore dell’affresco di Palazzo Bongiorno, però, risulta completamente differente da quella di Palazzo Altieri (Roma): mentre l’affresco di Palazzo Altieri rappresenta temi papalini e curialisti (le insegne pontificie e le chiavi), l’affresco di Palazzo Bongiorno (che è filogiansenista e, quindi, anticurialista, nonché filomassonico) rappresenta, in modo simbolico e suggestivo, la parte superiore della struttura del VITRIOL (Il Sole e la Luna che convergono nel calice Mercurio). Per l’interpretazione di tale affresco, nella recente ricerca che ho qui menzionato, mi sono avvalso dell’iconologia della “Clemenza” di Pietro Bellori (utilizzata dal Maratta per la realizzazione dell’affresco di Palazzo Altieri) e dell’Iconologia di Cesare Ripa, utilizzata da Pietro Bellori per la sua iconologia della “Clemenza”, [62] nonché da Fumagalli e da Francesco Benedetto Bongiorno per la realizzazione di alcuni dipinti degli affreschi di Palazzo Bongiorno. Per leggere e interpretare le differenze tra i due affreschi, ho utilizzato, inoltre, alcuni concetti espressi da accademici nelle opere pubblicate a stampa dell’Accademia degli Industriosi di Ganci.[63]

Sempre nella recente ricerca qui citata, alla quale faccio riferimento, ho mostrato come Fumagalli e Bongiorno, nell’affresco di Palazzo Bongiorno “Sic Floret Decoro Decus: il comportamento decoroso nei rapporti interpersonali, secondo Grazia Ragione e Giustizia” (affresco di chiaro tema filomassonico che va collegato all’altro affresco del palazzo, anch’esso di chiaro tema filomassonico, “Iustitia et Pax osculatae sunt: il comportamento decoroso nelle relazioni interpersonali, secondo Grazia Ragione e Giustizia, genera la Pace sociale, mediante il Cuore”), nel motto (“Sic Floret Decoro Decus[64] e nei concetti fondamentali delle icone, hanno ripreso temi riconducibili alla figura universale del “Decoro” di Giovanni Zarantino Castellini, all’incisione del “Decoro” di Carlo Grandi, all’Iconologia di Cesare Ripa (in una delle sue successive riedizioni) e alla statua del “Decoro” della Cappella Sansevero di Napoli (piena zeppa di simboli massonici e, oggi, museo), commissionata dal principe Raimondo de’ Sangro al massone Antonio Corradini.[65] Raimondo de’ Sangro, come ho già scritto in precedenza, era un potente massone napoletano, gran maestro, assai vicino al “fratello” principe di Calvaruso, maestro venerabile della Loggia Moncada, e alla famiglia Moncada (si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.): l’arcivescovo di Messina Tommaso Moncada de’ principi di Calvaruso, Patriarca di Gerusalemme, per un certo periodo, terminato con la sua morte, come riportato anchr in altre pagine web di questo sito, fu protettore dell’Accademia degli Industriosi di Ganci e di alcuni preti sediziosi e tumultuanti gangitani capeggiati dal sacerdote Onofrio Vitali (si veda il capitolo sui fratelli Moncada di F.P. Pinello, Il Decoro, cit.), zio di Giuseppe Fedele Vitale [66], segretario dell’accademia.

Un concetto formulato da Gandolfo Felice Bongiorno (principe dell’Accademia degli Industriosi di Gangi), in un suo discorso pubblicato a stampa, inoltre, consente di mettere in relazione i concetti filomassonici del Decoro, della Ragione e della Giustizia con il concetto filogiansenistico della Grazia (lo Spirito Santo, la “Clementia Mundi”), fornendo la chiave di lettura dell’altro affresco di Palazzo Bongiorno “Fides sine operibus – Mortua est: il Divin Redentore, la Grazia, la Ragione, la Giustizia e la Corruzione umana”. [67]

Aggiungo che, negli stessi decenni in cui, a Gangi, il barone Francesco Benedetto Bongiorno faceva costruire e affrescare il suo palazzo (Palazzo Bongiorno), il principe di Gangi (Valguarnera), a Palermo, faceva costruire, decorare e affrescare il suo ricchissimo palazzo (Palazzo Valguarnera-Gangi), dove Luchino Visconti ha girato alcune scene del  “Gattopardo”, tra le quali la scena del ballo. Ciò a testimonianza della raffinatissima cultura e della qualità della mente di alcuni Gangitani di quel tempo. 

 

Le attività dell’accademia

  

A proposito della capacità di improvvisazione poetica di Giuseppe Fedele Vitale, segretario dell’Accademia degli Industriosi, si racconta, con un retrogusto di iniziazione, «ch’essendo egli al ventisettesimo anno della sua età [nda 1761], trovossi per la visita della diocesi a passare in Gangi l’Arcivescovo di Messina Monsignor D. Tommaso Moncada. Quivi essendosi costui degnato di accoglier sotto i suoi auspici l’Accademia degl’Industriosi, essi concertatogli un tributo di grazie [68], lo invitarono ad intervenire in quella [nda a Palazzo Bongiorno]. Monsignore accettò l’invito e preparatosi un sonetto di risposta, fece poi rappresentarlo dal suo segretario; ma inaspettatamente levasi ritto il giovane Vitale, e dall’ultimo verso di quello ne improvvisò un altro di cui Monsignore rimase tanto compiaciuto, e sorpreso che corse ad abbracciarlo, pregollo di darsi al sacerdozio, e trovatolo pronto a seguir la voce del suo Pastore, sclamò: ho involato ad Apollo il più eletto figliuolo, per farne un dono alla Chiesa». [69]

L’Accademia degli Industriosi di Ganci faceva propaganda filogiansenista e filomassonica, con discorsi e componimenti poetici, e si occupava di mummificazione di sacerdoti e di religiosi accademici, con applicazione di maschere funerarie in cera d’api [70] .

Gandolfo Felice Bongiorno scrive:

 

Ascritta la nostra Accademia Enguina alla vostra del Buon Gusto, e dichiarata seconda Colonia di essa, siccome si è ingegnata imitare le gloriose vostre fatiche nella Prosa, recitandosi varie Dissertazioni sacre, e profane secondo le nostre forze han potuto; così studiati ci siamo imitarvi nella Poesia». [71]

[…] da Voi non per tanto si vanta di aver appreso assaissimo, spezialmente dopo essere stata a cotesta vostra negli anni scorsi aggregata [la nostra Accademia degli Industriosi]. Le Dissertazioni in un Volume da Voi fatte pubblicare nel 1753, [72] e che con tanto plauso sono state lette dagl’Italiani, ed Oltremontani Letterati, onde somma gloria ne è derivata mercé di esse alla nostra Accademia, alla Città di Palermo, a tutto il Regno nostro della Sicilia, queste appunto a Noi han servito da norma per tessere le nostre Dissertazioni. L’essere più volte Noi intervenuti, ritrovandoci in Palermo, ne’ vostri Congressi ci ha fatto godere il brio, lo spirito, e il bel talento de’ vostri Poeti, e non pochi Componimenti di essi ne abbiamo con singolar contento ammirato in varie raccolte già pubblicati. [73]

 

Essere aggregati e Seconda Colonia dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto significava, per gli Accademici Industriosi di Ganci, partecipare ai Congressi e alle Radunanze di quest’ultima, a Palermo, e assumere le Dissertazioni e i componimenti poetici degli accademici di essa come modelli esemplari da imitare, nonché essere inseriti nella rete dell’accademia palermitana e della Repubblica delle lettere (Arcadia inclusa).

Il primo giorno di ciascun mese (eccettuandone i mesi di ferie, e di villeggiatura), come abbiamo già visto, era obbligo del Principe di fare adunare gli Industriosi «per far rappresentare pubblicamente qualche discorso sopra le buone scienze, ed arti per indagare il vero di esse, e correggerne gli abusi, se mai ve ne fossero» (V, Leggi dell’Accademia). [74] Il discorso era ad elezione, e cioè a scelta, del Discorrente prescelto, e cioè incaricato, dal Principe (ivi).

 

IX.Chi sarà eletto dal Principe per discorrere non possa ricusarne l’incarico senza legittima causa.

[…]

VIII. In mancanza del Discorrente, per non fare interrompere i Congressi Accademici, deve far egli [il Secretario] il Discorso. Qualora fosse impedito, supplisca tutte le veci il Prosecretario.

VI. Al giorno 15. Del mese si adunino i soli Accademici privativamente, e da uno de’ Censori esaminerassi con saggia, e prudente critica il Discorso già prima recitato, alle di cui proposte difficoltà deve l’Autore di esso far le sue discolpe senza ostinazione, e livore.

IV.Dal Principe nuovamente eletto, e dall’altro, che termina il suo governo, si scelgano i due Censori, il Secretario, e il Prosecretario. [75]

Quindi:

-          il Principe veniva eletto, ogni due anni, da per lo meno tre parti degli Accademici;

-          il Principe uscente e quello nuovamente eletto sceglievano gli altri Ufficiali: i due Censori, il Secretario e il Prosecretario;

-          il nuovo Principe, i due Censori, il Secretario e il Prosecretario eleggevano i due protettori (quello locale e quello forestiero).

In base a quanto scrive Francesco Alaimo, Censori dell’accademia erano Francesco Antonio Vitale e Pucci e Vincenzo Centineo, dei quali numerosi sono i componimenti poetici pubblicati nelle opere a stampa degli Industriosi. A detta dell’Alaimo, Centineo fu un illustre latinista.[76]

 

VII. Sarà parte dei Censori rivedere tutti i Componimenti, e purgarli da qualche errore, che mai vi fosse per inavvertenza scorso, onde possano un giorno valere per la stampa.

VIII. Il Secretario deve conservare con diligenza le Leggi, e tutti gli Atti dell’Accademia; raccogliere i Discorsi, e tutti i Componimenti Poetici […]. [77]

 

Qual era il senso di questa attività censoria? La chiave di lettura è il criterio del buongusto.

 

In altri termini, i nomi [dei poeti] del canone muratoriano non sono sorretti da un’applicazione rigida del principio dell’autorizzamento, come allora avveniva, ad esempio, nel classicismo di un Gravina e di altri. Per criterio dell’autorizzamento si intende, ovviamente, l’assunzione di alcuni auctores nel ruolo modellizzante di exempla normativi, per cui, nella prassi poetica, i moderni non possono che imitare quegli antichi paradigmi, e corrispettivamente, in sede critica, al poeta moderno è riconosciuto lecito ciò che gli antichi hanno legittimato con la loro autorità. […] Muratori dice addirittura […] che non si ha progresso (nihil crescit) in forza di sola imitazione.

[…] all’autorizzamento il Muratori sostituisce il buon gusto, inteso precisamente come «discernimento dell’ottimo». Si tratta di una sorta di facoltà empirica della ragion critica, che consente di trascegliere il meglio dovunque esso si trovi: un criterio selettivo, dunque, che proprio in quanto selettivo configura in maniera nuova l’idea stessa di canone letterario. Al centro del canone muratoriano non è più l’auctor, cioè lo scrittore canonizzato e venerato acriticamente in ogni sua pronuncia, e che come tale diviene norma per gli autori successivi. Il canone muratoriano, invece, proprio grazie al buon gusto, non si struttura in forza di una consacrazione ex auctoritate, ma di un atto critico, di un giudizio di merito pronunciato dalla ragione; un atto che scevera «bellezza» e «difetti» (sono i precisi termini muratoriani), meriti e demeriti dell’opera dell’autore, anche se di autore grandissimo si tratta.[78] In altri termini, a un canone ricevuto, ereditato dalla tradizione, il Muratori applica la verifica critica del buon gusto: ossia, cartesianamente, incarica la ratio di vagliare le ragioni della doxa,[79] quasi a voler fondare su basi più salde, l’opinione dei più, pure già consolidata nei secoli dall’autorità della tradizione. Ma questo del buon gusto è per Muratori una sorta di principio più generale: un principio metodologico, cioè direttivo e operativo: una sorta di norma deontologica, a mezzo fra etica e metodo, dell’uso della Ragione negli studi (e non solo in essi): una ratio – e dunque ragione e regola insieme – che egli applicherà a ogni aspetto del suo programma riformatore […]

Ma il tema del progressivo incremento delle capacità umane [di tempo in tempo, scriveva Gandolfo Felice Bongiorno] non richiama solo il concetto di buon gusto, pure centrale. Era anche uno degli argomenti principali del partito dei Moderni nella […] querelle des Anciens et des Moderns[80]

 

Gandolfo Felice Bongiorno, che sulla ragione e sulla mente nutriva una concezione filogiansenista, [81] nell’opera Rime degli Accademici Industriosi del 1769, come ho già ricordato in un'altra pagina web di questo sito, riporta la storia della redazione del testo. Ciò ci consente di comprendere perché i Discorsi e i Componimenti Poetici degli Industriosi, che erano recitati e declamati in pubblica adunanza, erano poi riveduti e corretti, grazie all’intervento dei Censori (due erano Centineo e Vitale-Pucci), e conservati a cura del Secretario (Giuseppe Fedele Vitale).

 

Essendo poscia difonto mio Fratello il Barone del Cacchiamo [Francesco Benedetto Bongiorno] […] fu gentilissima parte degli Accademici appalesare, la di lor gratitudine agli obblighi, che gli professavano, ed in una solenne Radunanza esporne il merito, e le virtuose azioni non solo in prosa in una funerale Orazione [quella di Giuseppe Fedele Vitale], ma anche in una Corona, ed in varj Componimenti poetici a di lui immortal gloria intessuti. Fu quindi mio pensiero fin d’allora pubblicar colle stampe tutta intera quell’Accademia; e l’avrei di fatto eseguito, se non si fosse risoluto da più d’uno degli Accademici, questa essere la migliore occasione di raccogliere i più scelti Componimenti Poetici, che si erano recitati nel corso di molti anni, e farne, per così dire, un corpo in più volumi diviso. Piacque a tutti gli altri il progetto ideato; si risolse formar questo primo delle Corone, che in diverse occasioni eransi recitate; incominciaronsi ad esaminare quelle, che nel nostro Archivio eransi conservate dal Segretario dell’Accademia, se ne scelsero le migliori, che unite alle Composizioni fatte in morte di mio Fratello, e per le Reali Nozze de’ Nostri Augustissimi Sovrani sotto l’autorevole vostro padrocinio [Accademici Palermitani del Buon Gusto] ci facciamo lecito di esporre al Pubblico.  [82]

 

Questa, dunque, è la struttura delle Rime:

-       Componimenti fatti in morte di Francesco Benedetto Bongiorno (Thanatos); 

-       Componimenti fatti per le Reali Nozze di Ferdinando di Borbone e Maria Carolina d’Austria. (Eros);

-       Corone e componimenti poetici, che in diverse occasioni eransi recitate (Catene d'Unione et al.).

 

Ecco cosa scrive, a proposito delle Corone, Gandolfo Felice Bongiorno:

 

Quello appunto, che cotanto desiderato avea il Signor Abate D. Arcangiolo Leanti, gloria della Vostra Accademia [del Buon Gusto] non meno, che della nostra Siciliana, è a Noi riuscito di eseguire, Virtuosissimi Accademici. Volea Egli, che si pubblicasse uno, o più Volumi in Rime dagli Accademici del Buon Gusto, come già erasi praticato da quelli dell’Accademia degli Ereini, ben Egli sapendo quanto fossero ricercate da tutti gl’Italiani, e dalle colte Nazioni, i quali ànno bastante cognizione, e lo confessano in più libri, che non è spento dalla Sicilia quel fervido antico estro, che ne’ scorsi secoli avea spinto i nostri Maggiori alla Poesia Toscana; onde al sommo furono commendati quei dotti Uomini, che ne’ tempi dell’Imperador Friderico, ed in quelli a Noi più vicini ad uno studio sì dilettevole, e grato applicaronsi. [83]

 

Bongiorno aggiunge che, con l’opera Rime pubblicata dall’Accademia degli Industriosi di Ganci nel 1769, per la prima volta è stato reso noto al pubblico, mediante la stampa, il modo di comporre le Corone di Sonetti da parte degli Accademici Palermitani del Buon Gusto e degli Accademici Ereini di Palermo. Gli Accademici Industriosi infatti, a suo “dire”, hanno imitato gli accademici palermitani, prendendoli ad esempio. Inoltre hanno sperimentato anche metri nuovi, mai da altri sperimentati. Spiega anche perché il network delle tre accademie componeva Corone di Sonetti (o Sonetti a Corona), secondo una moda del tempo che affondava le sue radici in un lontano passato. Nel farlo, introduce il suo discorso con un’apertura tipicamente massonica dedicata all’epicurea/lucreziana e giusnaturalistica uguaglianza, secondo natura, di tutti gli uomini e alle sanzioni premiali riservate ai grandi uomini da imitare, per diritto delle genti.

Ricordo al lettore che, di lì a poco, nel 1795, un giureconsulto massone palermitano, assai attivo nell’ambiente accademico cittadino, Francesco Paolo Di Blasi, nipote per via paterna dei tre Di Blasi Accademici Industriosi – Gabriello Maria (arcivescovo di Messina e protettore dell’accademia, dopo la morte di Tommaso Moncada de’ principi di Calvaruso), Giovanni Evangelista e Salvadore Maria –,  sarà decapitato a Palermo, nell’odierna Piazza Indipendenza, fuori Porta Nuova, dopo essere stato torturato quasi a morte. Lui che aveva scritto proprio contro le torture e la pena di morte, sostenendo le riforme del viceré di Sicilia Francesco Maria Venanzio d’Aquino, principe di Caramanico,[84] anche lui massone, morto forse avvelenato, sempre nel 1795.

Nelle prigioni, poco prima di essere giustiziato, secondo la moda accademica e massonica del tempo, Francesco Paolo Di Blasi compose due sonetti. «Dolce Signor, se si ponesse meta / A Tua clemenza, quella più non fora / Ma non perciò fia che peccando ogn’ora, / Stupito, l’uomo, in Tua pietà s’accheta. / Sia torbida la vita, oppur sia lieta, / Sempre l’interno cruccio mi divora: / Del mio peccar provo tutt’ora / Tant’aspra pena, quanto più segreta. / Ah, troppo tardi, è ver, a Te mi rendo, / M’ancor v’è tempo, e Tu in un punto puoi, / Dolce Signore, intenerirmi il cuore. / Se Tua mercé il mio dover compiendo; / Se questi lumi son pur doni Tuoi; / Diffiderò del Tuo paterno amore?». Così recitava uno dei due sonetti, assai simile, in quanto a temi e soggetti, a quelli filogiansenisti e di Buon Gusto degli Accademici Industriosi di Gangi. [85]

A tali sonetti affidò la sua testimonianza spirituale e il suo testamento massonico/religioso di uomo esemplare da imitare che, nonostante le torture patite, giammai rivelò il nome dei suoi complici e quanto tra di essi era stato concertato.

Francesco Paolo Di Blasi fondò l’Accademia Siciliana di Palermo, che è una delle accademie, insieme a quelle degli Industriosi di Gangi, del Buon Gusto di Palermo e degli Ereini, sempre di Palermo, nelle quali erano attivi numerosi liberi muratori. [86]

La questione affrontata da Bongiorno, nell’entroterra della Sicilia, a riprova della penetrazione di queste tematiche culturali, anche in assenza di vere e proprie logge massoniche (non sono in grado, infatti, di sostenere che a Gangi ci fosse una vera e propria loggia: parlo di accademia protomassonica), ha a che fare con la figura di uomo ideale da imitare, nella poesia francese e italiana tra Sette e Ottocento, ideal-tipo che coincideva con il libero muratore, secondo però Buon Gusto e Decoro (la nuova nobiltà). Il suo scopo, infatti, non è per niente quello di trattenere a bada, e stuccare su le diverse fogge, ed intorno alle tante, e sì varie manifatture delle Corone, ma spiegare come e perché i nostri Poeti per eternare dunque co’ loro metri gli Uomini grandi, e scienziati, e fregiarne le più distinte virtuosi azioni, iniziarono a comporre Corone di sonetti.

La poesia, «spesso legata alla musica e a una diffusione anche orale, ha rappresentato nel Settecento», come scrive la Delogu, «un mezzo fondamentale per la diffusione di nuove idee. Inoltre la forma poetica, in particolare l’inno, è indicata nelle stesse Constitutions di Anderson “come genere fondamentale e prescritto per la liturgia massonica”. […] Si noti per altro come il modello del Libero Muratore ideale abbia avuto una diffusione anche nella poesia pubblica e sia venuto di fatto a coincidere con quell’uomo ideale tout-court. A titolo di esempio si [può] citare Paul Desfogres-Maillarl che indirizzando un carme a Titon du Tillet, ne rileva la caratteristica più importante nel suo essere un amico sincero e zelante, fedele e giusto».[87]

Ribadisco che Titon du Tillet faceva parte sia dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto sia dell’Accademia degli Oretei (Palermo)[88] promossa nel 1745 da Vincenzo Di Blasi, padre del massone Francesco Paolo (che successivamente fondò l’Accademia Siciliana, per morire poi decapitato) e fratello del protettore forestiero dell’Accademia degli Industriosi di Gangi Gabriello Maria (prima abate del monastero benedettino di Monreale e poi arcivescovo di Messina), nonché degli altri due Accademici Industriosi benedettini (del monastero di San Martino delle Scale – Palermo) Giovanni Evangelista e Salvadore Maria.

Per la Delogu la figura dell’uomo ideale, dell’ideal-tipo direbbe Max Weber, è un tema di importanza fondamentale nella poesia massonica, e non solo, del Sette e dell’Ottocento. L’autrice, attraverso l’analisi di un consistente corpus di testi italiani e francesi, la maggior parte dei quali sono stati reperiti presso la Biblioteca del Grande Oriente d’Italia, la Bibliothéque du Grand Orient de France e la Bibliothéque Nationale de France, ha inteso tracciare il percorso che ha portato prima all’ideazione di questo nuovo tipo di uomo, per sfociare poi in un vero e proprio culto laico.

 

Inizialmente il Libero Muratore ideale è sostanzialmente un amico della verità e un nemico dell’errore, [89] resta tuttavia una figura generica: è descritto come un amico perfetto, un benefattore, una persona virtuosa e saggia, una sintesi di sapere e piacere. [90] A partire dagli anni ’70 del Settecento, invece, questa figura ideale trova incarnazione in Fratelli celebri come Voltaire, Dupaty e Lalande in Francia e Filangieri e Mascheroni in Italia. La griglia di virtù che caratterizza il Libero Muratore ideale ha successivamente inspirato i poeti della Rivoluzione francese, molti dei quali erano loro stessi massoni, che ritraggono e celebrano in versi sia figure del recente passato come Voltaire e Rousseau, sia nuovi martiri ed eroi come Marat e Lepelletier. Certo però il vero protagonista è, sul finire del secolo, Napoleone Bonaparte, al quale sono dedicati molti e significativi testi; capace di combinare nella sua figura tutte le virtù passate e di presentarsi come l’unico vero eroe della sua epoca, egli è l’autentica incarnazione dell’uomo ideale, un modello inarrivabile al quale comunque guardare. La scelta di concentrare l’analisi su testi poetici e non su opere di altra natura è motivata dal fatto che la poesia, spesso legata alla musica e a una diffusione anche orale, ha rappresentato nel Settecento un mezzo fondamentale per la diffusione di nuove idee. [91]

 

Il ruolo della poesia nella diffusione di nuove idee nel corso del XVIII secolo, scrive la Delogu in nota, è già stato messo in rilievo in ambito massonico: «Contrairement à ce que l’on croit souvent, l’idéologie maçonnique n’a pas été diffusée par les Constitutions d’Anderson, mais bien par le message diversifié des chansons et poèmes véhiculés par toute l’Europe». [92]

 

Il Libero Muratore ideale è un’armoniosa sintesi di virtutes di stampo illuministico quali tolleranza, filantropia,[93] bienfaisance, lotta al pregiudizio e pregi propriamente latomistici come amicizia ed eguaglianza. Questa figura ideale è presente fin dalle prime poesie massoniche a noi note e si distingue per una precisa griglia di valori: egli è un amico fedele, zelante, caritatevole e sincero, un benefattore dell’umanità, un eroe della verità, saggio e virtuoso. [94]

 

Sempre in nota, citando Cazzaniga, la Delogu scrive che il ritratto del massone ideale è caratterizzato «dall’insistenza su un preciso catalogo di virtutes, dove il modello dell’ethos illuministico (libertà dal pregiudizio, tolleranza, filantropia, bienfaisance) è integrato a quello muratorio, fondato sull’amicizia che “vive all’ombra della più perfetta eguaglianza”».[95] Citando anche Fedi, scrive che l’elogio viene indicato come uno dei generi più cari alla tradizione letteraria massonica, in particolare l’«elogio di impianto letterario»,[96] nel quale il messaggio latomistico è velato e si fissa su un catalogo di virtutes di stampo quasi formulare.

 

Il libero muratore ideale è, nella pregnante sintesi di Élie Catherine Fréron, un «Charmant Epicure et Divin Platon».[97] Questi caratteri restano costanti dagli albori della produzione massonica francese – il primo testo rinvenuto data al 1737 – al primo Ottocento, quando si ritrovano praticamente immutati anche in Italia. In Italia i primi testi massonici (cioè scritti da affiliati per un uso interno alle logge) datano al primo decennio del XIX secolo e ripetono sostanzialmente i consueti attributi, con la sola aggiunta di un maggior impegno politico, rintracciabile nell’uso di espressioni come «difensore della vera libertà». Inizialmente dunque il Libero Muratore ideale è una figura generica e indistinta.

I valori sopra elencati si trovano espressi in versi, in una sorta di scandito e sintetico catalogo di precetti da seguire per percorre la strada del perfezionamento personale:

« Former sur les vertus son coeur et sa Raison /

reconnaître desloix la Sagesse Suprême, /

ne point nuire au prochain, l’aimer comme soi même /

ce sont la les secrets que possède un maçon». [98]

Toni simili si trovano anche nella cosiddetta Norma morum, [99] una sorta di vademecum del Buon Massone, risalente agli albori stessi dell’istituzione, nel quale, a fianco di indicazioni di ordine morale in senso lato, sono ancora forti le istanze religiose: [100]

«Fide Deo, diffide tibi, fac propria, castas, /

funde preces, paucis utere, magna fuge. /

Multa audi, dic pauca, tace abdita, disce minori /

parcere, maiori cedere, ferre parem; /

tolle moras, minare nihil, contemne superbos, /

fer mala, disce Deo vivere, disce mori». [101]

 

La Delogu, nel 2013, come abbiamo visto, scriveva che «in Italia i primi testi massonici (cioè scritti da affiliati per uso interno alle logge) datano al primo decennio del XIX secolo». Non così per i testi protomassonici e per quelli delle accademie che, in certi periodi storici difficili per le logge, venivano messe al servizio della massoneria, o di alcuni massoni, pur continuando a essere accademie. Gli Industriosi di Gangi ne sono un chiaro esempio (si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.).  

Ritorniamo adesso a Gandolfo Felice Bongiorno.

 

Gli Uomini essendo invero riguardo a se stessi pienamente uguali, non ebbero dalla Natura [102] imposte, secondo la discorre il gran Filosofo Cristiano Volfio [Christian Wolff], se non se le medesime obbligazioni, e le stesse leggi. Le prerogative, e le precedenze, che vantano taluni sopra degli altri, dal diritto sol delle Genti, dall’osservanza, e fatto degli Uomini fu a ragione inventato per uffizio di umanità più tosto, e per le particolari azioni, onde taluni si segnalarono. [103]

 

Domenico Schiavo, nella Dissertazione I Sopra la necessità e i vantaggi delle Leggi Accademiche del 1755, Dissertazione che, lo ribadisco, per gli Accademici Indistriosi di Gangi valeva come norma, a proposito delle Leggi scriveva, con riferimento esplicito agli Artefici, e cioè i costruttori, agli Operai, e cioè i muratori, gli artigiani, e ai Maestri, cioè i tracciatori delle Leggi (le corporazioni muratorie):

 

Sono le Leggi , chi di Voi non lo sa eruditissimi Accademici? Il fecondo Demostene ce l’insegna un celeste dono del Sommo Dio, un decreto della gente più saggia, che a ben vivere ci prescrivono, ed a fuggire i delitti; senza le quali se ad attingere i primi fonti dell’antica Storia inoltrar ci vogliamo, vedeansi gli Uomini di barbaro genio, ed inumano scorrere vagabondi per le campagne, ed in erme solitarie spelonche, a guisa delle fiere, menar gran parte dell’infelice lor vita: signoreggiando in que’ tempi qual sovrana donna  e regina la più nera discordia, madre dell’inganno, della rapacità, del disordine. Appena però fra di loro radunatisi gli Uomini stabilirono le civili società, che il primo loro pensiero fu le più provvide Leggi dettare, entro di noi dalla natura stessa qual’immutabil diritto ispirate, che quale forte invincibile feudo valuto avessero a conservare non meno la felicità, ed il buon ordine della Repubblica, che a rispingere ancora l’ingiusta forza de’ loro esteriori poderosi Nemici. Qual meraviglia sia dunque che nel ravvisarsi dagli Uomini il singolare loro vantaggio, mercè lo slabilimento delle pubbliche Leggi, non vi sia picciola radunanza di gente, comecché comunale, e i Collegi stessi degli Artefici, ed Operaj, che non vantino le di loro particolari costituzioni, e su la scorta di elle ogni contesa, ogni dubio non si pregiassero di sciogliere, e dileguare? Ed eccovi brevemente esposta, Signori, la più vera cagione, onde i primi nostri dotti Maestri, che ad erigere questo luogo consecrato alle Muse, ed alla sapienza pensarono… [104]

 

E ancora, dopo le corporazioni muratorie, le accademie:

 

Se la Natura innestò in noi della comunanza, e della vita civile il desiderio, l’Accademie ci apprestano del suo acquisto , del suo governo, e del suo conservamento la norma, e la regola; quindi si fu, che alle Cittadi, e Repubbliche vengon esse a buon diritto rassomigliate [nda la Repubblica delle lettere]; conciosiacosachè se in quelle il pensiero, e l’intenzione de’ Cittadini è tutto rivolto all’utile comune, ed all’acquitto delle umane felicità, che altra è la meta, e lo scopo nostro, Signori, se non l’acquisto della sola virtù, per amor della quale tante fatiche, e tanti sudori continovamente spendiamo? Siccome però di gran lunga oltrepassa l’oggetto nostro ogni qualunque idea de’ semplici Cittadini appigliati soltanto alle terrene cose, e caduche; così di maggior commendazione, e di laude siamo noi degni, se più di ogn’altro pensiamo ad illuminar nostra mente nelle scientifiche ed erudite materie, e quindi porre in esercizio quel fine per cui fummo creati; volli dire per mezzo della sapienza, e delle lettere assai più chiaramente conoscere il nostro Divin Facitore, ed in questa stessa terra del nostro frale coverti per quanto sìa possibile possederlo. [105]

 

Domenico Schiavo fa riferimento, anche lui, a Caino. Il contesto è quello delle guerre fratricide. Ecco le accademie protomassoniche.

 

Quello spirito però di contenzione, e di discordia, che nato prima dell’Uomo [nda era già presente nel Giardino di Genesi, dove fu creato Adamo: si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Boingiorno, cit.], andò poscia serpendo nella nollra terra [nda a partire da Caino], e dell’Uomo stesso impadronitosi è funesta cagione di tante inimicizie, di tante guerre, di tante stragi, e desolamenti di Cittadi, e di Regni, dal noltro Siciliano Andrea Barbazia chiamato Porta la più spaziosa, e patente, per cui entrar possono a danneggiar le Provincie i loro crudeli Nemici, non à lasciato pur anche spargere di sovente nelle comunità letterarie per mezzo d’Uomini capricciosi, e bizzarri il rio veleno, e pestifero, ch’è stato pure baistevole ad obscurarle, e distruggerle.  [106]

 

Ma c’è anche il tema adamitico.

Ecco di fatto come appena invogliatosi per nostra comune disàvventura Adamo il primo nostro progenitore di togliersi da quella dolce servitù [nda il de servo arbitrio], nella quale la divina bontà creato l’avea, vanamente credendo di ascendere al sublime singolarissimo grado della divinitade, e da qualunque altro impero libero, e indipendente a sua posta qual’altro Dio governarsi; allora fu, al dire di S. Cirillo l’Alessandrino che divenne il più dispregevole servo non meno delle sue passioni di già rese rubelli, ma sggetto pur anche a’ più vili irragionevoli bruti. [107]

 

Poi Schiavo, trattando sempre delle accademie e delle loro leggi, introduce il tema dell’indissolubil catena che i più nobili spiriti congiunge all’amore della virtù. Si tratta del tema che adesso vedremo sviluppato da Gandolfo Felice Bongiorno, nella sua Dissertazione sulle Corone (o Catene). 

 

Quale adunque sarà per essere l’indissolubil catena, che i più nobili spiriti congiungesse ad un istesso volere nell’intrapresa carriera delle letterarie fatiche, ed all’amore della virtù se non se quella delle Leggi, le quali da un antico Oratore si riconobbero più valevoli a conservar le Città da qualunque forza nemica di quello sieno le più infrangibili ben salde muraglie, e le fortezze più stabili, credute per altro dagli Uomini volgari il di loro più sicuro sostegno? essendo purtroppo a noi palese, che senza una si debole manchevol difesa può qualunque Cittade per lunga serie d’anni persistere: non già però anche a breve tempo senza il necessario presidio delle più provvide Leggi durare in tranquilla pace, ed in amichevole sicurezza. Ed ora si che meco intenderete, Accademici, il perchè nel virtuoso esercizio delle facoltà letterarie bisognevole giudicossi lo stabilire alcune determinate regole, che lo spirito delle Leggi in se stesse racchiudono …[108]

 

Dal tenore di ciò che scrive Schiavo, si capisce che le leggi poste dai fondatori dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto non erano più sufficienti e che necessitavano nuove leggi. Il motivo è chiaramente detto dal Dissertante. All’interno delle accademie (ma poiché il discorso di Schiavo è generale, sono autorizzato a credere anche all’interno delle accademie protomassoniche e delle logge massoniche), alcuni individui, in nome della pur positiva libertà di pensiero e del principio di autodeterminazione, creavano scompiglio ed erano intolleranti al controllo gerarchico. Ciò rendeva di difficile gestione e estremamente pericolose le accademie e le logge. Si spiegherebbe così anche il perché dell’accentramento dei poteri in mano al de’ Sangro. Ma qualcosa dev’essere andata storta. La lettera di de’ Sangro a papa Benedetto XIV, infatti, inviata poco prima che scoppiasse la bomba antimassonica del 1751, ha il sapore del salvacondotto concesso a colui che aveva ricevuto l’incarico di eseguire un mandato.

Con la Dissertazione di Domenico Schiavo sulle accademie e sulle loro Leggi, siamo nel 1755, e cioè quattro anni dopo l’Editto Regio antimassonico del 1751 e vicini al 1789. L’esigenza di munirsi di leggi scritte e di renderle pubbliche, stampandole (lo fece anche l’Accademia degli Industriosi di Gangi nel 1769; prima di tale data era suo obbligo comunque conformarsi a quelle dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, dalla quale dipendeva dal 1756, in quanto “Seconda Colonia”), per le accademie, verosimilmente fu un’operazione di trasparenza e, allo stesso tempo, di velatura, anche perché numerosi erano i massoni che dalle logge erano passati nelle accademie protomassoniche (non nelle accademie tout court) o che, comunque, erano anche accademici (si veda proprio il caso degli Industriosi, dei quali ho scritto in Il Decoro, Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.). Siamo in presenza di un periodo di crisi dell’èlite e di profondo mutamento sociale che preclude, anche all’interno delle logge massoniche e delle accademie, ai fatti rivoluzionari americani e francesi. Documentati da un carteggio (conservato nell'archivio del Museo Filangieri di Napoli) sono, per esempio, i contatti epistolari  tra il giureconsulto massone Gaetano Filangieri (nipote dell'arcivescovo giansenista di Palermo Serafino Filangieri) e il massone americano Benjamin Franklin (uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti), che soggiornò anche a Parigi.

Le nuove Leggi dell’Accademia del Buongusto sono pubblicate in coda alla Dissertazione I di Domenico Schiavo, dalla pagina 27 alla pagina 31. I primi Statuti dell’Accademia Palermitana erano stati pubblicati nel 1722. [109]  

Nella Dissertazione di Schiavo è trattato anche il tema del lungo silenzio.

 

Lungo sarebbe se di tutti i Filosofi, e de’ Medici io qui parlar vi volessi; basterà solo rammemorarvi quanto già Pittagora stabilì sopra il lungo silenzio, che doveano osservare i suoi Discepoli, sopra l’astinenza, e temperanza a ben dirigere le di loro passioni necessarie, e alla perfine sopra l’andamento, il moto, e l’abito de’ suoi Scolari, quali cose comecché accidentali fossero negli Uomini, di sovente però ci spiegano il vero carattere dello spirito. [110]

 

Giuseppe Fedele Vitale, nella sua Orazione in morte di Francesco Benedetto Bongiorno (Rime degli Accademici Industriosi, 1769), declamava:

 

Difficile è (chi va’ di voi, che non sappia?) [cfr. e cioè: voi tutti lo sapete bene che è difficile] la virtù del tacere; e dotto, e prudente addiviene l’Uomo in moderare il loquace parlare; lo che [la qual cosa] a meraviglia conferma il Principe di Peripato [Aristotele]. Richiesto un giorno Aristotele, [su] qual mai si fosse l’atto di maggior prudenza, che usar si potesse dall’Uomo, essere quello [Aristotele], rispose, di tacere ciò, che non è da dire”.

 

Questo è il tema del Decoro (si veda, F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.).

 

Potrei rapportarvi pur anche il decreto sul primo ingresso della sua Accademia da Platone fatto scolpire: Nemo geometriae expers introito[111]

 

Ed ecco, adesso, anche il tema del tempio e delle scritture ebraiche, connesso alle necessità e ai vantaggi delle Leggi per l’Accademia Palermitana del Buon Gusto e per quella degli Industriosi di Gangi, sul quale tema è in questo sito il contributo di Carmelo Fucarino (pagina web approfondimento). Importante è far rilevare che Domenico Schiavo, che era il Direttore dell’accademia, lo sviluppa in chiave pneumatologica (Spirito Santo). Tale tema, pertanto, risulta essere argomento di Dissertazioni nelle adunanze delle due accademie. È mio convincimento, infatti, che quello pubblicato nell'approfondimento di Fucarino sia il testo di una Dissertazione accademica in latino dell’Accademia degli Industriosi.

 

Poco però giovate sarebbero le più giuste rispettevoli Leggi, se alla di loro osservanza impegnati non si fossero alcuni Uomini riputati sopra gli altri più saggi; e da ciò appunto l’origine de’ Magistrati ne è derivata sin da’ secoli più lontani descrittaci non già da Livio, o Plutarco, o dall’immortal Cicerone, ma dallo stesso Spirito Santo nella Sacra Scrittura. Avea 1’Altissimo Iddio consegnato a Mosè le Tavole della Legge, quali nella Proseuca, come vuole l’Aulisio, o sia nella tenda della Sinagoga di sovente spiegavasi al Popolo d’Israele, quando l’istesso Dio facendosi nuovamente vedere, gli ordinava con precise parole: Adunami settanta Uomini de’ vecchi d’Israele, quei, che conosci, che siano vecchi del Popolo, vale a dire i più prudenti, e sensati, e menali nel tabernacolo dell’Alleanza o come porta l’Ebreo, nella tenda della Sinagoga, ed io te li darò per compagni, onde assieme con essi il mio Popolo governassi. Questo si fu il divino comando dato a Mose, e questo stesso fu eseguito pur anche in un rilevantissìmo affare da Giosuè, qualora la tribù d’Israele ritrovavasi in Sichem [nda La grande assemblea di Sichem, Giosuè 24], convocando di tutti gli Uomini i più attempati, i Principi, i Giudici , ed i Maestri. Lungo sarebbe se io tutti i luoghi ridir vi volessi, in cui 1’istesso più volte vien confermato nelle Sacre Carte; da quanto però sin ora vi ò esposto ben vi accorgete, Accademici, cosa mai io ne pretenda a comun nostro vantaggio ritrarne. Se le Leggi ci prescrivono il retto, l’utile, il profittevole, i Magistrati son quelli, che all’esecuzione, e all’osservanza delle Leggi a tutt’uomo impegnandosi, non che allontanano dalle Repubbliche i vizj, le contenzioni, i disordini; ma nuovo sprone di sovente aggiungendo agli Uomini sciapiti, ed inetti, vieppiù fomentano le virtù, al ben operare ci allettano, ed a compire i doveri di un buon Cittadino ci dipingono … [112]

 

Si veda a seguire, quando dirò delle Corone di Sonetti dell’Accademia degli Industriosi di Gangi la cui funzione, attraverso i Vati e la celebrazione degli Eroi immortali e dei meritevoli di essere premiati, per l’appunto, con Corone di Sonetti, era proprio quella di isvegliare in tutti quell’appetito innato in Noi verso la virtù, che amore da Platone venne nomato, e che è la vera sorgente di ogni virtuosa umana azione.

Domenico Schiavo disserta anche sul tema dei premj e delle punizioni. Il retrogusto è ancora quello del Decoro, qui contrapposto alla mancanza di regole e al libertinaggio. Si tratta sempre del nuovo concetto di nobiltà, fondato sulle virtù, sui meriti e sulle sanzioni premiali, funzionale al mantenimento dell’ordine, all’interno e all’esterno delle accademie, delle città, ma anche delle logge ecc, perché l’argomento è volutamente di portata generale. Il fratricidio di Hiram, lo smantellamento delle officine, per i liberi muratori docet. È evidente che, in un periodo di crisi, bisogna rinsaldare le fila e far fronte compatto contro le avversità, dotandosi di uno scudo pubblico che sia trasparente e perfettamente legittimo (le accademie protomassoniche). Pertanto, se ho visto giusto, il passaggio non è dalle corporazioni di mestiere alle logge speculative, ma dalle accademie protomassoniche, alle officine “operative” (intrise di rosacrucianesimo) e alle logge “speculative”, con nuovi travasi nelle accademie protomassoniche, in periodi di gravi difficoltà per le logge .

 

Siccome adunque per porre il dovuto freno, e regolamento alle ferali discordie degli Uomini fu ben giusto consiglio scegliere tra essi i più virtuosi, e prudenti, quali su la scorta di certe Leggi, che le cose oneste encomiando, le cattive, ed ingiuste anche con gravi pene proibendo, il disordine, le sregolatezze, i peccati sbandito avessero dalle Città; così del pari si è sempre mai costumato nelle Accademie, e nei letterarj Licei, ne’ quali stabilite da prima alcune regole per ben incamminarci nella diritta strada della sapienza, di esse il più esatto adempimento si è riserbato ad alcuni Accademici, quali incaricati a tutt’uomo pell’universale letterario profìtto, e più degli altri infiammati del santo amore della virtù affiticare si debbono colle saggie prudenti loro insìnuazioni, e molto più col lodevole esempio ad animare i compagni, per esercitarsi tutt’ora in opere gloriose, e degne della memoria de’ posteri; onde mercè le ingegnose erudite loro fatiche ornata si vedesse la letteraria Repubblica della più ingenua nobiltade, che intesa tutta a perfezionare la civile società degli Uomini coll’esercizio delle virtuose azioni, si rende sempre più profittevole, e vantaggiosa al buon reggimento delle più culte Provincie. Dican ora,  se dir lo possono taluni, a cui l’immagine apparente, e sensibile delle cose abbacinando lo sguardo di elle punto non considerano l’ingegnoso artificio, e la pregevol materia; esser le Leggi, ed i Magistrati un tirannico giogo della nostra libera condizione, che posta dal Divin Facitore in mano del suo proprio consiglio, ingiusto, ed irragionevole sembra doversi un Uomo assoggettare a un altr’Uomo, che nulla sopra di lui vantar possa di più sublime, e spezioso.  Nè di ciò punto paghi, più del dovere abusandosi di quel detto di Tacito: Raram temporum felicitatem ubi sentire quae velis , & quae sentias licere liceat; stoltamente soggiungono, che se in ogni Cittade, e Provincia ammetter si deve la libertà di pensare, e di eseguire ciò che credesi più convenevole, e vantaggioso; ammetter più di ogn’altro si deve nelle letterarie Adunanze, in cui non avendosi punto riguardo a quegli eterni bassi pregi, che adornano la parte inferiore dell’Uomo, ma a quei solamente, che àn per oggetto il perfezionare la parte più nobile di noi medesimi, a ragione chiamata dal morale Filosofo lucidissimo raggio, e perfetta immagine della Divina Sapienza; di sublime ingegno tutti dotati, e adorni della più squisita singolare erudizione, possono senza Leggi, e senza Magistrati da se stessi reggersi, e governarsi, e nell’intrapresa carriera delle scientifiche letterarie cognizioni vieppiù inoltrarsi [nda il tema riporta alla memoria, oltre alla Piramide scozzese, anche la Pratica di esercizi militari di Raimondo de’ Sangro e i Regolamenti dallo stesso citati in modo metaforico: si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.]. Quello sarebbe il pensamento bizzarro, su di cui dolcamente appoggiati taluni pretendono non esser punto necessarie le Leggi nelle civili Società, e nelle letterarie Accademie; ma chi di Voi non si accorge, Signori, quanto a partito s’ingannano, e dal retto adeguato discorso siano lontani? Poteano gli Uomini, sia pur loro concesso, nello stato naturale viver felici regolando tutte le loro azioni con quella Legge, che è propria dell’umana natura, l’uno all’altro porgendo ne’ loro affari l’amica mano, e l’opportuno soccorso; nè a vero dire riuscito sarebbe questo stato da se medesimo così infelice, e sgraziato, quale sel finsero l’Obbes [Hobbes], e il Puffendorfio [Puffendorf]; avendo gli Uomini però ereditato una corrotta natura che non si lascia così di leggieri signoreggiare dalla ragione, si diedero in preda alle loro passioni, ed al più deplorabile peraizioso libertinaggio. [113]

 

Il giansenismo ben si accordava all’Homo homini lupus (dilettazione terrestre), e cioè agli uomini uguali per natura ma segnati dalla corruzione, a causa del peccato originale di Adamo e Eva, e dall’Invidia, a causa del fratricidio di Caino (si veda, F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.).

Prima di passare nuovamente alla Dissertazione di Gandolfo Felice Bongiorno, voglio soffermarmi brevemente sulle prime pagine della Dissertazione III Sopra le Università di Sicilia di Giuseppe Santacroce Giureconsulto Palermitano, sia perché utilizza il termine “dilettazione” (è un cavallo di battaglia del giansenismo: “dilettazione celeste” vs “dilettazione terrestre”), [114] sia perché offre una sintesi di quello che gli Accademici Industriosi intendevano per lume naturale che è un riflesso  del volto di Dio nell’uomo, sul quale agiva la Grazia divina, e cioè lo Spirito Santo. È il tema del lume naturale primariamente segnato dalla ragione, la quale ragione è utilizzata dalla Grazia affinché con le sue briglie sospinga gli avidi sensi (determinati dalla corruzione originaria di Adamo e dall’Invidia di Caino), in chiara luce (si veda l'affresco "Fides sine operibus - Mortua est" di Palazzo Bongiorno"; F.P. Pinello, Gli affreschi di Palazzo Bongiorno, "dimora filosofale" a Gangi). Anche questo tema ha a che fare con il Decoro, per via dell’illuminazione. Santacroce riprende e sviluppa argomenti che sono già contenuti nella Dissertazione I di Domenico Schiavo e che vengono ripresi anche da Gandolfo Felice Bongiorno nella sua Dissertazione. Come Bongiorno, Santacroce si richiama a Samuel von Pufendorf, la cui dottrina, come quella di Leibniz, ben si sposava con alcuni temi del giansenismo.

 

Se la potestà dell’Uomo diritto avesse a quanto le naturali sue facoltadi si estendono, la sua condizione non  sarebbe dissìmile di quella di tutti gli altri animanti, che non conoscendo freno di ragione, o di legge misurano le azioni loro dal moto, a cui sono spinti per providenza di lor natura: [115] Ma il rimirare, che l’uomo è astretto a ristringere il suo potere ad una certa norma, fa a noi concepire una più alta idea della nobiltà dell’intelletto nostro, e dire, che la legge è stata a lui per opera di mano eterna impressa nel cuore fin dal suo nascimento, e che lo spirito avendo virtù d’inalzarsi più là che i sensi debba a quella le azioni sue conformare. Quindi se le cose tutte dell’universo, e quelle, che animate sono, e quelle, che non hanno anima, cercano, ed amano per disposizione di propria natura la perfezione loro; l’umano intelletto, non potendo in altro miglior modo conseguirla, che intendendo, cerca sempre di sapere, ed intendere il più, ch’egli può; al che con una delettazione, che in ciò ha posto la natura, è continuamente allettato, e sospinto. La qual cosa considerando uno de’ gran Maestri di coloro, che sanno, disse nelli suoi officj, che agli uomini impose la natura un certo personaggio [nda Adamo], che li distingue al di sopra di tutte le create cose, e di tutti gli altri animanti. Da qui egli avviene che gli uomini scacciando l’aspra salvatichezza, che dalla dura Madre [nda Eva] hanno tratta, lungi dal produrre le azioni loro a misura che le naturali facoltadi loro additano, si eleggono per compagna direttrice la sapienza, affinchè renda più dolci i loro costumi, e le maniere più gentili. Non deve adunque a noi recar meraviglia, se nel sapere abbiano gli uomini la felicità collocato, e quelli, che agli altri sovrastano, non abbiano saputo trovar miglior modo a procacciare a’ sudditi la pubblica pace, e l’universal vantaggio, che col riporre l’arte del sapere infra il numero delle cose sublimi, e divine, onde da quella la suprema salute alle civili società ne provenga. [116]

 

Ma vediamo come sviluppa questi temi Gandolfo Felice Bongiorno, nella sua Dissertazione che, dunque, riprendo a commentare.

 

Or siccome la ragione ci obbliga, e ci addita a far quelle azioni, che alla perfezione umana, ed allo stato nostro felicità arrecar possono, e contentezza; così per vie meglio gli Uomini a quelle invogliare i proprj compagni, ànno le più culte Nazioni, e le più sagge Repubbliche con marche di onori, e con singolarità di premj onorati fra tutti quei Cittadini, che per nobili, e segnalate operazioni di distinsero sopra gli altri; e quindi isvegliare in tutti quell’appetito innato in Noi verso la virtù, che amore da Platone venne nomato [Simposio], e che è la vera sorgente di ogni virtuosa umana azione.[117] Ed in vero cosa mai di bello, e di segnalato si eseguirebbe nel mondo, supponendolo spezialmente già per nostra comune disgrazia corrotto, e attristito, se ogni premio, ogni onore si togliesse via, e si sbandisse dalle Società? Locchè sin da suoi giorni l’ebbe a confessar Giuvenale [Juvenalis sat. 10].

Quis enim virtutem amplectitur ipsam

Praemia si tollas?

Ed ecco spiegata in breve l’origine delle ricompense, e de’ premj, che sempremai si son fatte alle più distinte eroiche azioni degli Uomini, e tra questi non ottiene l’ultimo luogo quello delle Corone. Non vi crediate però, che io voglia inutilmente trattenervi a bada, e stuccarvi su le diverse foggie, ed intorno alle tante, e sì varie manifatture delle Corone, che a’ Trionfatori, e Vittoriosi Campioni, agl’Imperatori, e Monarchi, a’ difensori delle proprie Città, e Provincie, ed a tanti altri illustri Eroi furono ne’ secoli più vetusti, e ne’ tempi a Noi più vicini accordate. Io ben so, e Voi pur anche assai meglio di me lo sapete, quanto di proposito su questo argomento ne scrissero Carlo Pasquale, Giovanni Meursio, Martino Shmeinzelio, ed innumerevoli altri Scrittori con infaticabile studio raccolti dal gran Polistore Giovanni Alberto Fabricio, e dal suo Continuatore Paolo Schaffshausen [Bibliogr. Antiqu. cap. 14. F. 716. & 17. Postr. edit.].

Di quelle corone dunque sarà mia parte, soltanto qui raggionarvi, che letterarie [nda protomassoniche] possiam chiamare, perché agl’insigni Letterati furono con solenne pompa concesse, o in loro onore intessute da’ loro compagni Poeti.

Antichissima vanta sua origine l’uso di coronare i Poeti con ghirlande di alloro, giacchè, avendo la stolta Gentilità infinto, che il Dio Apollo dall’alloro proferiva i suoi Oracoli; colle foglie di quest’albero stimarono adornar le tempia, e la fronte de’ più insigni Poeti. Mirum non est lauro redimiri capita Poetarum, cum Apollo summus omnium vatum e lauru edat Oracula, ce l’assicura il teste citato Carlo Pasquale [Paschalius de Coronis lib. 5. Cap. 12. F. mihi 321.], adducendo a suo favore le autorità di non pochi antichi Poeti, i quali si protestarono non poter comporre delle pregevoli opere, se da prima del sacro alloro non si adornavan le chiome.

                                                                                                                   ………… sume superbiam

Quaesitam meritis, & mihi Delphicam

Lauro cinge volens Melpemone comam.

Così lo scrisse Orazio [Horatius lib. 3. Carm. Ode ult. in fine.], e così ancora per lasciarne tutti gli altri il Poeta Stazio [Statius lib. 4. Sylv.]:

                                                                                                               …. Si pariter mihi vertice laeto

Nectat adoratas, & Smyrna, & Mantua lauros

Digna loquar.

Non ci tramandarono gli antichi Scrittori, se mai i Poeti da per se stessi la prima volta si cingessero privatamente la fronte di alloro, o con pubblica solennità, e festiva pompa da insigni Personaggi ricevessero un tale onore, come presso i Greci costumassi con quelli, che il primato otteneano ne’ giochi Olimpici; Ne’ tempi però a Noi più vicini ci è rimasta memoria delle sontuosissime feste celebrate più di ogn’altro in Italia, ad oggetto di onorare i rinomati Poeti, e gli Oratori più eloquenti, e facondi. Il celebre Signor Titon du Tillet (gloria, e splendore non meno della Francia, ove nacque, che della nostra Palermitana Accademia del Buon Gusto, alla quale volle essere ascritto) nella sua bella Opera; Essais sur les Honeurs, & sur les Monuments accordès aux illustres scavans pendant la suit des siecles, largamente ci spiega il trionfo, e le pompe celebrate in Roma nel secolo 14. per coronare il gran Francesco Petrarca; quelle ancora ordinate dal Pontefice Clemente VIII. ad insinuazione di suo Nipote il Cardinale Aldobrandini nell’anno 1595. per eternare il trionfo, e la coronazione di Torquato Tasso; abbenchè la di lui morte accaduta pocodopo il suo arrivo in quell’Alma Città avesse privato un tal’Eroe dell’onor meritato, i suoi Protettori della piacevole benemerenza, e il popolo tutto di un sì lieto spettacolo; né lascia di descriverci finalmente tutto ciò che praticossi nel Campidoglio sotto il Pontificato di Benedetto XIII. a 13. Maggi del 1725. per immortalare la fama del sorprendente improvvisatore Poeta il Cavaliere Bernardino Perfetti da Siena [Titon du Tillet op. cit., disc. 4. pag. 281. & seq. & pag. 425. & seg.]. Degli altri ancora ne rapporta Giacinto Gimma, quali si furono Enea Silvio Piccolomini, Francesco Filelfo, Nicolò Perotto Vescovo Sipontino, e Pubblio Fausto Andrelino [Gimma Italia Letterata Tom. 2. Cap. 35. F. 428]; né dobbiamo lasciare di far parola delle due solenni coronazioni eseguite nella Città di Palermo sotto il governo del Viceré Marco Antonio Colonna in persona di Francesco Potenzano celebre non meno nella poetica facoltà, che rinomato Pittore; onde dell’una e l’altra corona meritò di essere adorno. Distesamente ce ne spiegò la gran pompa, da lui stesso con piacere ammirata, D. Vincenzo di Giovanni nel M.S. del Palermo ristorato, da cui la trascrisse, e pubblicolla la prima volta il P. Giovanni Amato [Amato Adnotat. in Orationem I. in literariis anni renascentis auspiciis f. 128.].

Da quanto però brevemente sinora ho accennato, ben si scorge, che ingente spesa arrecavano anche a’ più potenti Promotori, e Mecenati delle lettere, e degli Uomini letterati sì fatte coronazioni; quindi si fu, che il Parnasso Italiano [la Repubblica delle Lettere] inventò un’altra sorte di coronazione, a dir vero di poca spesa; ma senza meno più durevole, e gloriosa. Per eternare adunque i nostri Poeti co’ loro metri gli Uomini grandi, scienziati, e fregiarne le più distinte virtuosi azioni, un sonetto, o un’ottava composero, i di cui versi replicandosi di mano in mano in varj altri sonetti, o in altre ottave, tutte in fine nel primo andassero i diversi componimenti a terminare, e questa sorte di metro Corona l’addimandarono. Imperfetto a dir vero nel suo principio si fu l’uso di tali Corone, né come oggi si ammirano condotte con tanta vaghezza, gusto, ed armonia. Costumavano, dice l’Eruditissimo Crescimbeni [lib. della Volg. Poesia vol. I. lib. 3. Cap. 9. F. 211.], gli antichi Poeti Toscani di continuare un argomento per due, tre, e più Sonetti [Lo stesso Poes. Ital. vol. I. lib. 2. Cap. I. f. 242.] con tale unione di sentimento in tutti, che sembrasse un solo componimento, e ne rapporta non pochi esempi. Altri più moderni, a somiglianza di quelli, ne han fatto i componimenti di ogni sorta di lirica poesia, come quello di Lorenzo Bellini in lode di Benedetto Menzini [Menzini Poes. Tom. 2. In fine]. [118]

 

Ecco il tema che bisogna mettere bene a fuoco: i nostri Poeti, a un certo punto,  per eternare dunque co’ loro metri gli Uomini grandi, e scienziati, e fregiarne le più distinte virtuosi azioni, iniziarono a comporre Corone, continuando un argomento per due, tre, e più Sonetti (ma non soltanto sonetti) con tale unione di sentimento in tutti, che sembrasse un solo componimento. Possiamo chiamare tali pratiche poetiche Corone (o Catene) di Unione tendenti all’unità. La comunione di effetti e di pratiche con le catene di unione massoniche è evidente (si veda, su questo punto, anche F.P. Pinello Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, cit.). Del resto, è lo stesso Gandolfo Felice Bongiorno che evidenzia come tali Corone potessero chiamarsi anche Catene, con riferimenti altresì a una testa di morto, al Sutt’impiu Celu (e cu lu vulia diri?), O diviso dal Ciel da Micaelle e alla famiglia Moncada de’ principi di Calvaruso (Il Giardino d’Amore: due ottave incatenate).

 

Nel Secolo 16. si studiarono alcuni Poeti di restringere la maniera d’incatenare, tessendo i Sonetti delle medesime rime [Poes. Ital. lib. 2. Cap. I. f. 243.]. I Poeti Senesi alla fine, e particolarmente [Crescimbeni Ope. cit. Vol. I. lib. 3. Cap. 9. F. 214.] gli Accademici Intronati, introdussero, come dice l’Andrucci [L’erudito Crescimbeni nell’Istoria della Volgar Poesia Vol. I. lib. 3. Cap. 10. F. 215. ne adduce lo esempio di diversi Autori], 15. Sonetti, e il Sonetto Magistrale di tal maniera intessute, che ritrovarono, a sentimento del Crescimbeni, il vero modo di lavorarli; mentrecché le altre anziché Corone, per di lui avviso, Catene si potrebbon dire [Dice l’Andrucci, che tal distinzione di sì grand’Uomo (parlando del Crescimbeni) sia piuttosto arbitraria, e niente fondata: da che Tasso, e Annibal Caro, Autori di tai componimenti, àn chiamato Corone quelle inferiori di n. 15.]. Però l’Annotatore [Crescimb. Ist. Della Volg. Poesia Vol. I. lib. 3. Cap. 9. F. 214.] della Storia della Poesia del testè lodato Crescimbeni mette in dubbio se fossero di tali Corone i Senesi inventori: volendo più tosto, esserne stati i Promotori, e che di tal maniera se ne trovano da Marco Filippi composte in ottava rima […]; E dello stesso Autore si legge un Sonetto contra Cerbero, che comincia: O diviso dal Ciel da Micaelle, ch’è per l’appunto il Sonetto, che il Crescimbene Magistrale appella; mentre sieguono 14. Stanze di Mario Perelli, ed ognuna fa fine con un verso del suddetto del Filippi.

Ed io pur ritrovo l’uso d’incatenare le Ottave Siciliane ne’ prischi tempi colla replica delle parole dell’ultimo verso, e nel secolo 16. coll’intiero verso: e susseguentemente una Ottava stessa per Magistrale, ed altre otto, che finiscono con un verso di quella ottava […] Nelle Rime degli Accademici Accesi di Palermo raccolte da Giambattista Caruso Barone di Xiureni lib. 2. In Palermo per Antonio Cortese nel 1726. F. 618. si legge in fine un Ottava d’incerto Autore fatta supra una testa di morto […] Nelle Rime di Giacopo di Moncada e Marini Principe di Calvaruso [119] nel lib. intitolato il Giardino di Amore stampato per D. Antonino Maffei in Messina nel 1689. vi sono due Ottave incatenate. La prima a f. 407. sopra una Ottava, che incomincia: Sutt’impiu Celu (e cu lu vulia diri?) che ha per oggetto un amante addolorato, vi sono otto Ottave, che finiscono con ciascun verso della medesima a f. 411. si leggono ancora otto Ottave incatenate incominciando la seconda Ottava coll’ultimo verso della prima, la terza coll’ultimo verso della seconda, e così le altre; È fatta questa sopra la bellezza di una Donna, e comincia la prima, Un sertu chi, chi in tia bedda si vidi.]

Perciocchè per accennare l’uso nell’Italia, e nella nostra Sicilia seguito dalle più cospicue Accademie, si recita un Sonetto, che chiamasi Magistrale, e da’ versi di questo si formano altri 14. Sonetti; facendo il primo verso del Sonetto Magistrale principio al primo Sonetto, nomato Coronale, e così si prosiegue sino alla fine in maniera, che l’ultimo verso del Magistrale facci il principio del 14. Sonetto Coronale, e il 14. la chiusura: Sono per lo più tali Corone tessute da diversi Autori, e poche da un medesimo Poeta [Crescimbeni loc. cit. f. 214].

Quante, e quali siano le Leggi, che per foggiare tali Corone tennero gli Antichi, l’abbiamo dal Quadrio [Quadrio Storia, e Ragione d’ogni Poesia. T. 2. Part. 2.]; Ma come queste, e le tessiture del Crescimbeni d’invenzione degli Arcadi, non sono oggi in uso, così le Corone, che nella presente [nda il riferimento è a Rime degli Accademici Industriosi (1769)] nel numero di 28. in circa si presentano al Pubblico, sono ugualmente lavorate, cominciando il primo Sonetto Coronale, e terminando il 14. come poc’anzi si disse sullo stile tenuto dagli Accademici Intronati [Nell’Adunanza degli Arcadi di due altre maniere la perfetta Corona ho veduto trattare, dice il Crescimbeni Istoria della volgar Poesia lib. cit. f. 214. E 215. L’una si è di 14. Sonetti, il primo de’ quali comincia coll’ultimo verso del Magistrale, e termina col penultimo, il secondo comincia col penultimo, e termina coll’antecedente, e così siegue fino al fine, annoverandosi in essa sempre all’in su. L’altra di 40. Sonetti, la quale in occasione che nel bosco di detta Adunanza si celebrò l’Esaltazione al Pontificato di Clemente XI. già uno de’ Pastori della medesima, noi inventammo, e da 40. diversi Compastori speditasi, pubblicammo con non poco applauso alla presenza di grandissimo numero di Ascoltanti.]. Ci avverte l’Andrucci [Andrucci Poes. Ital. loc. cit.], che si han valuto gli Autori a formar Corone nelle cose serie, e nelle giocose tal volta; quindi alcune, che si ànno con universale plauso recitato nella nostra Adunanza, in occasione delle Cicalate, ci ha parso di pubblicarle colle altre, che in diverso metro si han formate per essere così più compita questa raccolta, e per dare a ravvisare, che malgrado i legami della rima, e degli argini apposti a’ concetti, lavorar si possono per qualunque Obbjetto.[120]

 

Unitamente agli argomenti sulle Corone di Sonetti, trattate nel senso di Corone o Catene d’unione, Gandolfo Felice Bongiorno fa un riferimento al Tempio. Egli paragona il volume Rime, che avrebbe dovuto essere il primo di tre tomi (in realtà gli altri due tomi non furono mai pubblicati) e che contiene le Corone, a un Tempio che non può essere giudicato dall’esteriore prospetto, perché è l’interna ordinanza, e venustà che bisogna invece considerare. Sul Tabernacolo e sul Tempio (Templari, cultura ebraica), [121] si veda l’approfondimento del Prof. Carmelo Fucarino, in questo sito, che riguarda un documento, verosimilmente coevo (seconda metà del Settecento) rispetto alle Corone pubblicate in Rime del 1769, che si trova presso l’archivio storico della Chiesa Madre di Gangi.

Quindi: un Tempio (Rime), dentro un altro Tempio (l’Accademia degli Industriosi), dentro un altro Tempio (Palazzo Bongiorno), dentro un Tempio sociale (la società gangitana da riformare in forza di principi e valori filogiansenistici e in base a un idealmodello di uomo filomassonico).

Mentre, nel discorso Agli Eruditissimi, e Chiarissimi Signori Accademici del Buon Gusto di Palermo, Gandolfo Felice Bongiorno scrive genericamente di un corpo in più volumi diviso,[122] nel discorso A’ Savj Lettori, pubblicato unitamente al primo, immediatamente dopo, nel medesimo volume Rime del 1769, nel contesto delle Corone e del Tempio, precisa invece che i tomi avrebbero dovuto essere tre, essendo il primo quello delle Rime.

 

Sembrerà pur grande l’animosità della nostra Accademia a taluni, i quali mirando questo Volume non lo degneranno di un’occhiata, mal prevenuti dall’Idea, che si han formato di un Paese tra’ Monti, e di non grande estenzione, e de’ Soggetti forse non conosciuti finora nella Repubblica Letteraria; e molto più coloro, che sanno di esservi una raccolta di Corone di Sonetti della sempre riguardevole Accademia degli Arcadi, in legendo il frontespizio, si metteranno a far chicchinni, e la prenderanno in deriso senza leggerne nemmeno una intera Corona. Il giudizio, che gli Uomini fanno per ingenita proprietà dell’idea, che formano, va bene spesso in fallo, mentre non si può ravvisare dalla semplicità di un esteriore prospetto di un Tempio l’interna ordinanza, e venustà, che al di dentro ritiene […] Gangi […] per origine è antichissima, e […] ragionevolmente a molte Città, che pretendono Dafne per Cittadino, può Engio competerle […]

Per dar dunque a comprendere l’onorate fatiche degli Accademici, e insieme per far conoscere come i buoni studj, e la favella Toscana anche ne’ Paesi mezzani di Sicilia si coltivano, ad insinuazione del suo amoroso Protettore [Francesco Benedetto Bongiorno] avea prima della di lui morte decretato l’Adunanza di pubblicare una Raccolta di Componimenti divisa in tre Tomi. Il Primo dovea esser formato di varie diverse Corone Sacre, Gentilizie, Funebri, e Bernesche, ed in diverso metro lavorate; Il Secondo contenea ogni sorta di componimento; E il Terzo di parecchie Prose, che si erano in essa lette, composto.

Si vedranno quindi per ora le Corone precedute da un Sonetto con nome Introduzione, e di un altro in fine corredate, che Offerta appellasi.[123]

 

Bongiorno precisa anche che è la prima volta che tali Corone vengono pubblicate, nel senso che a nessun altro prima di loro era riuscito di pubblicarle, neanche agli Accademici del Buon Gusto e agli Ereini di Palermo, dai quali loro hanno imparato a lavorarle. Aggiunge anche che sono state pubblicate delle Corone che soltanto gli Industriosi forse lavoravano.

 

Avvegna Dio che nelle Corone finora stampate non vi siano; per seguire però la nostra Accademia il costume della famosa del Buon Gusto, e dell’illustre Radunanza degli Ereini, dalle quali da gran tempo sono introdotte, le ha tutte così formate.

Non mi auguro dagli Amatori dell’Italiana Poesia (seppure rigidi Censori divenir vogliono) biasmo, e se non lode, compatimento almeno ritrarre la nuova fatica degli Accademici Industriosi, intessendo le Corone in diverso genere di metro, ed in vario stile, come Ottenario, Entasillabo, Pentasillabo, e Decasillabo, Bernesco, Giocoso, Dittirambico, e Pedantesco; camino forse finora, a riserba dell’Ottenario, d’altri non battuto.

Poiché nel fine del 16. secolo, secondo il Corticelli, [124] o sia nel 1694., giusta lo avviso del Crescimbeni,[125] dal Conte Errigo San Martino un Sonetto Ottenario intuonato alla celebre Accademia degli Arcadi, fu con piacere, e con applauso degli Ascoltanti inteso, e da molti indi composto, e d’alcuni Poeti adoperato a formar Corone.[126]

Il Pentasillabo, comparendo dapprima, per la diligenza del P. Jacopantonio Bassani, [127] avvegna che appo gli Antichi non se ne abbia alcun esempio, e per la sua vaghezza,[128] e per la felicità,[129] con cui tratta le materie gravi fu posto in uso da molti altri valenti Poeti. [130]

Il Settenario avendo le sue grazie, e molto confacendosi a certi soggetti, sebbene uno di Pateleone di Rossano se ne riferisca dal Trissino,[131] non dee per la sua singolarità ritrovare Disprezzatori.

Il Sonetto Decasillabo benché non avessi cognizione, che fosse stato d’altri composto, tutta via non credo di non volerlo soffrire i Poeti più gravi, i quali se porran mente all’armonia, e al risalto, che porge allo argomento in esprimendo molto al vivo il trionfo del glorioso Capitan Celeste, fa di mestieri, che lo lodino, e che non ne deridano l’invenzione.

Molto meno tempo d’essere guardata in cagnesco la Bernesca, essendovene delle altre; e la Pedantesca, se cotanto il suo stile decanta lo Stigliani[132] dicendo: fanno questi Sonetti tanta grazia, che non ho veduto fino al mio tempo fra componimenti piacevoli più giocondi di questi; di fatto il Sonetto, dello Scrofa, che comincia: Mandami in Syria, mandami in Cilicia. è chiamato da Biaggio Schiavo poesia singolare, e distinta.

Di qual piacere ci riempiono i Sonetti Ditirambici non è gioco forza ch’io sudi a dimostrarlo: bastando l’essere commendati da più eccellenti Autori, e l’autorità del Crescimbeni,[133] e del Ceva,[134] che dice trascrivendo il Sonetto di Gio: Bartolomeo Casareggi, che comincia:

O dolce Vin, mio solo Amor, mia Dea,

essere di buon gusto, e fino discernimento fornito, anzicchè cosa strana, e spiacevole;  gustando i Sali, e le grazie, colle quali va fino alla fine condotta una tal Corona; onde gli sembrerà piacevolissima, e la faranno degna della loro approvazione.

Finalmente soggiungo, ch’essendo l’effetto dalla creazione, un prodotto di quell’Estro, che Platone appella Amore,[135] e che elevando la mente sovra se stessa fa di tempo in tempo che penetri la occulta urna delle scienze, ne ritragga nuovi lumi, e ne appalesa nuove proprietà da altri non ritrovate. E quindi come i Critici sinceri, e savi fanno ascendere al più alto grado le scienze colle di loro critiche, e rette riflessioni; così i severi invidiosi, facendo arrestare i voli della mente, di belle invenzioni privano la Repubblica Letteraria.Né di censura è certamente degno il ritrovamento di una nuova spezie di Componimento, dove più che in altri l’Estro è Signore, come non la fu la Catena del Bellini, il Museo del Zappi, il Pentasillabo, l’Ottenario, ed altri.

Se poi vogliono declamare, essersi aperto un cammino da vecchi non battuto, e che non possono eseguire quello, che non si è fatto, né si può da loro ormai fare:

Turpe putant parere inoribus, & que

Imberbes didicere Senes perdenda fateri.

Son sicuro, che Voi, col consiglio de’ veri Dotti, metterete in non cale le ingiuste di loro critiche.[136]

 

Struttura Corona di Sonetti (minimo 14 accademici, massimo 17; ci sono però anche corone con un numero inferiore di accademici e ce ne sono due declamate interamente da un solo Accademico Industrioso): [137]

 

       A) Sonetto Introduzione

       1) Primo sonetto coronale

       2) Secondo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 1)

       3) Terzo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 2)

       4) Quarto sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 3)

       5) Quinto sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 4)

       6) Sesto sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 5)

       7) Settimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 6)

       8) Ottavo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 7)

       9) Nono sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 8)

       10) Decimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 9)

       11) Undicesimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 10)

       12) Dodicesimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 11)

       13) Tredicesimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 12)

       14) Quattordicesimo sonetto coronale (il primo verso è l’ultimo del sonetto precedente, n. 13)

       B) Sonetto Magistrale

       C) Sonetto Offerta 

 

 



[1] Cfr., Castiglione (Di) R., La Massoneria nelle due Sicilie: E i "Fratelli" meridionali del '700, vol V ("La Sicilia"), Roma 2011, p. 71.

[2] Giuseppe Giarrizzo, come fa notare Mario Siragusa, «spiega il processo di trasformazione in logge massoniche sui generis nel Settecento: “Alla fine degli anni Quaranta […] già prendono forma logge a prevalente composizione locale, ovvero si realizzano trasformazioni di precedenti accademie, società di piacere, conversazioni in “logge”…”», Siragusa M., Un sodalizio massonico tra i monti della Sicilia interna, cit., p. 94, con citazione di Giarrizzo G., Massoneria ed illuminismo nell’Europa del Settecento, Marsilio, Padova 1994, p. 101.

[3] Nel senso della "Repubblica delle Lettere" e dell’Humanitat degli Arisodemokrati di Herder, e cioè delle persone elette, le migliori in senso morale perché dotate di una profonda umanità, sostenuta popolarmente.

[4] Cfr. Pinello F.P.L’amore è il peso che dà il moto all’anima. Giansenismo e massoneria nella seconda metà del Settecento siciliano: l'Accademia degli Industriosi di Gangi di Giuseppe Fedele Vitale e di Gandolfo Felice Bongiorno. Lo Spirito Santo, la sua Santissima Sposa Maria Vergine Assunta in Cielo, la Passione del Divin Redentore, l'Ingegnosa Industre Macchina dell'Oriuolo, i Sonetti a Corona. In appendice, la "Clementia Mundi" di Palazzo Bongiorno, sede dell'Accademia degli Industriosi, a Gangi, e l'".Allegoria (o Trionfo o Elogio) della Clemenza" di Palazzo Altieri, sede dell'ABI (Associazione Bancaria Italiana), a Roma, Vignate (MI) 2015, pp. 231 ss.

[5] Ciò risulta da una lettera scritta dal principe dell’Accademia degli Industriosi di Ganci Gandolfo Felice Bongiorno all’accademico Industrioso e Pastore Etneo (Accademia degli Etnei) Vito Amico, per il tramite dell’accademico Industrioso e del Buon Gusto (Accademia Palermitana del Buon Gusto) Domenico Schiavo. Segnalo che la loggia di Raimondo de' Sangro si riuniva nel suo palazzo e che, sempre nel suo palazzo, si svolgevano logge “pubbliche”.

[6] Leggi dell’Accademia, in Rime degli Accademici Industriosi di Ganci Coll'Orazione funerale del Barone Francesco Benedetto Bongiorno Protettore di essa Accademia [...] per D. Gaetano Maria Bentivegna, Palermo 1769.

[7] Nell’opera Rime degli Accademici Industriosi, cit., ci sono due Corone dedicate a Maria Vergine, una per la nascita e l’altra per l’assunzione: Per la nascita di Maria Vergine, Corona Ottenaria, cit., pp. 153-161; Per l’Assunzione di Maria Vergine, cit., pp. 225-233.

[8] Si veda la pagina web "Blasone e brisure" in questo sito.

[9] Si veda la pagina web "Sacerdoti imbalsamati" di questo sito.

[10] Cfr. Alajmo F., Giuseppe Fedele Vitale poeta e medico del secolo XVIII, Palermo 1940, pp. 29-30. Alaimo scrive del rapporto di amicizia, nato a Catania durante il periodo dei suoi studi universitari in medicina (periodo in cui frequentava la casa di Ignazio Paternò, V° principe di Biscari, iscritto al Catalogo degli Accademici Industriosi di Ganci del 1769; il "Catalogo" è alla pagina web "La nave degli eretici" di questo sito), di Giuseppe Fedele Vitale con il giansenista Raimondo Platania, anche lui, a Catania, vicino al principe di Biscari. Raimondo Platania risulta iscritto al Catalogo degli Industriosi ed era Accademico Etneo. La scheda biografica di Ignazio Paternò (Castello) è in Castiglione (Di) Ruggiero, La massoneria nelle Due Sicilie e i "Fratelli" meridionali del '700, Vol. V (La Sicilia), cit., allegato n. 2, nota biografica n. 19, mentre quella di Raimondo Platania è alla nota biografica n. 22. Entrambi risultano al pie' di lista della loggia L'Ardeur fondata nel 1776, che era all'obbedienza della Gran Loggia Nazionale de' Regni delle Due Sicilie, "Lo Zelo" o "Dello Zelo", dipendenza autonoma, sede Villa Scabrosa (detta anche Villa Rascosa), ivi, pp. 120-121. Ignazio Paternò (Castello) fu maestro venerabile di tale loggia, operante a Catania, che ebbe come primo maestro venerabile il sacerdote Nicolò Pacifico. Insieme a altri fratelli Siciliani e Campani, partecipò alla nascita, nel 1774, dopo la morte di de’ Sangro, dell’obbedienza massonica nazionale detta dello Zelo (Gran Loggia Nazionale per il Reame di Napoli e Sicilia), di cui il V° principe di Biscari fu il rappresentante della massoneria catanese, quando era gran maestro il principe di Caramanico, Francesco d’Aquino, e primo gran sorvegliante il generale siciliano Diego Naselli de’ principi d’Aragona. Successivamente, Diego Naselli subentrò a Francesco d’Aquino. Già prima di allora, a Catania, forse era operante anche un’officina fedele alla Gran loggia inglese, della quale fu promotore, con ogni probabilità, il vescovo giansenista palermitano Salvatore Ventimiglia. Nel 1775 alla Gran Loggia Nazionale aderì anche la loggia degli Intraprendenti di Caltagirone. Ruggiero di Castiglione scrive che «Nella città catanese si possono individuare – secondo la ricostruzione storica di Giarrizzo – due diversi modelli massonici: uno facente capo all’obbedienza “nazionale” [di de’ Sangro] e l’altro al vescovo Ventimiglia, di chiara impostazione “inglese”», Castiglione (di) R., La Massoneria nelle Due Sicilie e i «Fratelli» meridionali del ’700, Vol. V (La Sicilia), cit., p. 95, con citazione di Giarrizzo G., Sicilia feudale e “repubblicana”, in D’Alessandro V. Giarrizzo G., La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, UTET, Torino 1997. Sul vescovo massone Salvatore Ventimiglia, cfr. Castiglione (di) R., La Massoneria nelle Due Sicilie e i «Fratelli» meridionali del ’700, Vol. V (La Sicilia), cit., pp. 21, 95, 101, 123, 128s., 133, 141, 144, 149-151, 154-160, 169, 181, 271, 305.

[11] Cfr. Alajmo F., Giuseppe Fedele Vitale poeta e medico, cit., nota n. 2, p. 25.

[12] Cfr. R. Di Castiglione, La Massoneria nelle Due Sicilie e i "Fratelli" meridionali del '700, Vol. V, (La Sicilia), cit. p. 70.

[13] Gaspare Fumagalli affrescò anche Palazzo Butera (attribuzione), a Palermo. Su tale palazzo, si veda, cfr. Balistreri R., Massoneria e alchimia a Palermo. Palazzo Butera e il messaggio esoterico, Plumelia, Palermo 2016. Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/gaspare-fumagalli_(Dizionario-Biografico)/. Che Pietro Martorana fosse il suocero di Gaspare Fumagalli lo leggiamo in Mazzola M.G., Un quadraturista romano: Gaspare Fumagalli (1720-1778), in "Sul Carro di Tespi. Studi di storia dell'arte in onore di Maurizio Calvesi", Roma 2004, pp. 205, 210. Mazzola è citata da Zalapì A. Per una storia del quadraturismo in Sicilia: profilo di alcuni protagonisti, in Fauzia Farneti  e Deanna Lenzi (a cura di), Realtà e illusione nell'architettura Dipinta. Quadraturismo e Grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del Convegno Internazionale di Studi "Realtà e illusione nell'architettura dipinta. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca", 2005, Alinea 2006, p. 453. La notizia  è anche in Guttilla M., Martorana Gioacchino (ad vocem), "Dizionario Biografico degli Italiani", Treccani, Volume 71, 2008. Zalapì scrive che <Gaspare Fumagalli (Roma 1720 - Palermo 1778), pittore quadraturista formatosi a contatto con l'ambiente degli artisti parmensi e piacentini attivi a palazzo Farnese a Roma, esordisce in Sicilia con tutta probabilità come scenografo. Tra il 1744 - anno in cui è documentato per la prima volta a Palermo - e il 1747 ha praticamente il monopolio sulle commedie e i drammi per musica rappresentati al Santa Cecilia e al Santa Lucia, i principali teatri cittadini appena riaperti dopo le ristrutturazioni seguite al terremoto del 1726. Nel 1749 Gaspare è documentato per la prima volta come pittore in occasione dei perduti affreschi firmati e datati della volta di Santa Chiara a Palermo. La più antica opera di quadratura attualmente superstite è la decorazione firmata, in fase di realizzazione nel 1757, delle volte di palazzo Bongiorno a Gangi, feudo madonita del ramo principesco dei Valguarnera. [...] Qualche congettura può avanzarsi per gran parte della decorazione del piano nobile di palazzo Butera [...], realizzata con tutta probabilità dopo il 1759, quando, secondo una notizia del marchese di Villabianca, "venne consumato dal fuoco il quarto principale di detta casa">, Zalapì A. Per una storia del quadraturismo in Sicilia, cit., p. 453-454.

[14] Sul palazzo Bongiorno, sugli affreschi e sui fratelli Bongiorno si veda Pinello F.P.Gli affreschi di Palazzo Bongiorno, “dimora filosofale” a Gangi, Letti mediante l'Iconologia di Cesare Ripa e alcuni concetti ricavati dalle opere pubblicate a stampa, dal 1758 al 1777, dall'Accademia degli Industriosi di Gangi, Vignate (MI) 2015; Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima. Giansenismo e massoneria nella seconda metà del Settecento siciliano, cit.; Bongiovanni G., voce Fumagalli Gaspare, in «Dizionario Biografico degli Italiani Treccani», Volume 50 (1998); Siracusano C.La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, p. 264; S. NaselliIl Palazzo Bongiorno di Gangi. Gli affreschi di Gaspar Fumagalli, Palermo 1968.

[15] Archivio Storico Termini Imerese, fondo notai defunti, notaio Andrea Cammarata, vol. 7053, c. 281-282, apoca di pagamento (28 dicembre 1757) che contiene l'indicazione dei dipinti da completare, a quella data (la maggior parte), dopo che Pietro Martorana era già stato pagato per le sue prestazioni rese a Palazzo Bongiorno.

[16] Si veda il capitolo sui fratelli Moncada del volume in uscita Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2020. 

[17] Nella Elezione in Mecenate di Monsignor N.N., Corona di Sonetti, in Rime degli Accademici Industriosi del 1769, cit., pp. 342-350.

[18] Leggi dell’Accademia, in Rime degli Accademici Industriosi di Ganci, cit. Le Leggi sono riportate anche alla pagina web di questo sito "L'Accademia".

[19] Naselli S., Il Palazzo Bongiorno di Gangi, cit., p. 18.

[20] Rime degli Accademici Industriosi di Gangi, cit., Bongiorno G.F., Agli Eruditissimi e Chiarissimi Accademici del Buon Gusto di Palermo, p. 5.

[21] Ivi, Vitale G.F., Orazione in morte di Francesco Benedetto Bongiorno, pp. 18-19.

[22] Gandolfo Felice Bongiorno, nella dedicatoria dell’opera Rime degli Accademici Industriosi di Ganci pubblicata a stampa a  Palermo nel 1769, scrive agli Accademici del Buongusto di Palermo, ai quali l’opera è dedicata: «Non abbiamo saputo pensare Mecenate più proprio, e più confacevole, se non se Voi, Virtuosissimi Accademici, giacché quantunque non fosse cotanto recente la nostra Accademia Enguina; da Voi non per tanto si vanta di aver appreso assaissimo, spezialmente dopo essere stata a  cotesta vostra negli anni scorsi aggregata», Rime degli Accademici Industriosi di Gangi, cit., Agli Eruditissimi e Chiarissimi Accademici del Buon Gusto di Palermo, p. 6. Tale aggregazione avvenne nel mese di gennaio del 1756, data in cui l’accademia  gangitana divenne Seconda Colonia dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto. Lo stesso anno (1756) fu a questa aggregata, oltre all’accademia di Gangi, anche quella di Castelbuono. L’Accademia degli  Industriosi di Ganci fu la seconda accademia a essere aggregata alla Palermitana del Buon Gusto, dopo quella di Alcamo nel  1746. Quella di Castelbuono fu la terza. Ecco perché Gandolfo Felice Bongiorno scriveva dell’Accademia degli Industriosi di  Ganci che essa era “seconda Colonia” dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, ivi, p. 4, e cioè Accademia del Buon Gusto in terra di Gangi. È Gaspare Palermo, Principe dell’Accademia Palermitana del Buongusto nel 1800, che fa chiarezza su questo punto:  «di  tempo in tempo cominciò a conoscersi il profitto di que’ letterarj istituti [Accademia Palermitana del Buon Gusto], e a propagarsi  maggiormente la fama de’ valenti Soggetti [Accademici Palermitani del Buon Gusto], che la componeano; a segno che diverse  ragguardevoli Accademie del nostro Regno, prese dall’alta reputazione alla quale la nostra era pervenuta, ebbero il nobile  impegno di esservi aggregate. Così vi si associò quella di Alcamo nel 1746, ai 6 di Marzo; quella di Ganci in Gennaro del 1756;  quella di Castelbuono nello stesso anno 1756», Sull'utilità delle Pubbliche Accademie per i progressi delle Scienze, e delle Lettere, Discorso del Cav. D. Gaspare Palermo De' Principi di S. Margherita, Principe dell'Accademia. Per servire d'inaugurazione al nuovo stabilimento dell'Accademia del Buon Gusto. Nel Palazzo Senatorio, p. XIII. In Saggi di Dissertazioni dell'Accademia Palermitana del Buon Gusto dopo la sua reintegrazione. L'Anno 1791, Vol. II, in Palermo, per il Solli, MDCCC (1800).

[23] Cfr. Alajmo F., Giuseppe Fedele Vitale, poeta e medico, cit., pp. 126 ss; cfr., Pinello F.P.L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., L’ingresso dell’“Accademia Enguinain Arcadia e il componimento di Giuseppe Fedele VitaleIl Tempo all’Enguinea Musa”(Canto), pp. 613ss.

[24] Cfr. Rossi P., “Clavis UniversalisArti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, 2000, pubblicato per la prima volta nel 1960 e ripreso da il Mulino nel 1983.

[25] Trattenimenti di Aristo, et Eugenio. Recati dall’original francese nell’Idioma italiano e dedicati all’Eccellentissimo Signore D. Vincenzo Starrabba, Principe di Giardinelli. Seconda edizione, Milano 1751. Nella Stamperia di Giuseppe Malatesta, pp. 374-375. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp. 541 ss.

[26] Cfr. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp. 541 ss.

[27] Rime degli Accademici Industriosi, cit. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., p. 264.

[28] Cfr. Viola C., Osservazioni sul canone nell’età dell’Arcadia e Tradizioni letterarie a confronto nella polemica Orsi-Bouhours, Verona 2009; Viola C., Canoni d’Arcadia. Muratori Maffei Lemene Ceva Quadrio, Pisa 2009; Viola C., Tradizioni letterarie a confronto. Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona 2011.

[29] Sulla Repubblica delle Lettere, si veda Bots H., Waquet F., La Repubblica delle lettere, il Mulino, Bologna 2005.

[30] Viola C., Osservazioni sul canone nell’età dell’Arcadia, cit., pp. 11-13.

[31] Cfr. Pinello F.P.L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp.59 ss.,I Sonetti a Corona e le Catene d'Unione”.

[32] Pinello F.P.Gli affreschi di Palazzo Bongiorno,Dimora filosofalea Gangi, cit., pp. 152 ss.,Modello filogiansenistico e filomassonico di uomo (i processi di rettificazione e i concetti)”.

[33] Cfr., Pinello F.P., L’amore è il peso che da’ il moto all’anima, cit., pp. 330-332.

[34] Schiavo D., Dissertazione, Saggio sopra la Storia Letteraria, e le antiche Accademie di Palermo, e spezialmente dell’origine, islituto, e progressi dell’Accademia del Buongusto, in Saggi di Dissertazioni dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Vol. I, in Palermo, MDCCLV (1755), Nella Stamperia de’ SS. Appostoli in Piazza Vigliena, Presso Pietro Bentivegna, p. XLIV. pp. III-V.

[35] Cfr. Pinello F.P., L’amore è il peso che da’ il moto all’anima, cit.,

[36] Idem.

[37] Degli avvertimenti intorno alle passioni dell’animo, Libri IV, di Niccolò Gaetani Dell’Aquila D’Aragona, Signore di Tutta la Famiglia, A’ suoi Nipoti, Nella stamperia di Felice Mosca, Napoli 1732.

[38] Chiosi E., Prefazione, in Annicelli L., Il Codice massonico di Ischia, Stamperia del Valentino, Napoli 2018, pp. 13-14. Su questi temi, sulle virtù, sulla morte e sui vati che rendono immortali gli eroi, sul bisogno di “perpetuità”, si veda Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., che contiene l’analisi di alcuni componimenti degli Accademici Industriosi di Gangi.

[39] Bongiono G.F., A’ Savj Lettori, in Rime degli Accademici Industriosi di Ganci del1769, cit.

[40] Cfr. Iconologia del Cavaliere Cesare Ripa Perugino. Notabilmente accresciuta d’Immagini, di Annotazioni, e di Fatti Dall’Abate Cesare Orlandi Patrizio di Città della Pieve Accademico Augusto, A Sua Eccellenza D. Raimondo Di Sangro […] Tomo Secondo. In Perugia, MDCCLXV. Nella Stamperia di Piergiovanni Costantini.

[41] Questo era anche l’ideale di Raimondo di Sangro, il quale, non solo decise di allargare, per accorpamento, la sua loggia Perfetta Unione, per consentire a tutti i ceti sociali, purché uomini capaci di Decoro, di accedere alla Libera Muratoria, combattendo stereotipi, pregiudizi e discriminazioni, ma per meglio realizzare questo suo progetto, fondò la Rosa d’Ordine Magno (anagramma del suo nome).

[42] Bongiono G.F., A’ Savj Lettori, in Rime degli Accademici Industriosi di Ganci del1769, cit., pp. I-II.

[43] Cfr. Iconologia del Cavaliere Cesare Ripa Perugino, cit., p. 125.

[44] Cfr. Rossi P., I filosofi e le macchine 1400-1700, Milano 2002, pubblicato per la prima volta nel 1962 e ripreso da Feltrinelli nel 1984.

[45] Sul Grande Orologiaio e sul funzionamento fisico/naturale dell’Universo come se fosse un Orologio, metafora che costituiva anche un argomento per sostenere e affermare l’esistenza di Dio (teologia naturale), si vedano René Descartes, Robert Boyle, Robert Hooke, William Derham, Gottfried Leibniz, Francois-Marie Arouet (Voltaire), Pierre Simon Laplace, William Paley ecc.

[46] Vitale G. F., Orazione in morte di Francesco Benedetto Bongiorno…, in Rime degli Accademici Industriosi, cit., pp. 16-17. Cfr. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., p. 336.

[47] Rime del 1769, Del Barone D. Gandolfo Felice Bongiorno Principe, e Procustode dell’Accademia fra gli Arcadi Lucidio Eliconio. Orazione, pagg. VI-VII. Cfr. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., p. 547.

[48] Sul giansenismo in Sicilia nel ventennio 1750-1770, e sul ruolo svolto dai tre fratelli Di Blasi (tutti e tre Accademici Industriosi) e, soprattutto, di Gabriello Maria Di Blasi (arcivescovo di Messina e protettore forestiero dell'Accademia degli Industriosi di Gangi) mi piace citare, perché originario di Gangi, il frate cappuccino Giustino (Pietro) Cigno, cfr. G. Cigno O.M. Cap., Giovanni Andrea Serrao e il giansenismo nell’Italia Meridionale, cit., pp. 323-348. Cito altresì Correnti S., La Sicilia del Settecento. Il tramonto dell’isola felice (con sedici stampe d’epoca), Volume I, ed. Tringale, Catania 1985, pp. 418-422; Giarrizzo G., Cultura e economia nella Sicilia del ’700, «Unione delle Camere di Commercio della Sicilia Storia Economica di Sicilia – Testi e Ricerche», Caltanissetta-Roma 1992; Giarrizzo G., Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia 1994; Bentivegna G., Dal riformismo muratoriano alle filosofie del Risorgimento. Contributi alla storia intellettuale della Sicilia, Napoli 1999.

[49] La Musa Enguina nell’Universale Acclamazione In Consigliere, Primo Segretario di Stato degli affari esteri, e Casa Reale, Sopraintendente delle Poste, della Giunta Gesuitica, e degli Abusi Di S.R.M. Ferdinando Quarto Re delle Due Sicilie Del Signor D. Giuseppe Bologna Marchese della Sambuca […] Canti Tre Del Barone D. Gandolfo Felice Bongiorno De’ Baroni del Cacchiamo, Fra gli Arcadi Lucidio Eliconio, Vice-Custode della Colonia Arcadia Enguina degli Industriosi: Accedemico Ereino, e del Buon-Gusto &c. […] Appresso D. Antonio Valenza Impressore Camerale, 1777. Nel 1775, re Ferdinando, consigliato dal segretario di stato Tanucci, aveva emesso un editto di condanna della massoneria. Tale editto non sortì particolari effetti. Dopo pochi mesi, infatti, sotto la protezione della regina Maria Carolina e del nuovo segretario di stato palermitano Giuseppe (Beccadelli di) Bologna (e Gravina), marchese della Sambuca (principe di Camporeale &c.), la massoneria era più fiorente di prima.

[50] Giansenisti, oltre all'arcivescovo di Messina Gabriello Maria Di Blasi, erano Marcello Papiniano Cusani (arcivescovo di Palermo), Serafino Filangieri (arcivescovo di Palermo, dopo Marcello Papiniano Cusani), Francesco Testa (arcivescovo di Siracusa, prima, e di Monreale, dopo, inquisitore generale in Sicilia), Salvatore Ventimiglia (vescovo di Catania), e cioè i vescovi delle più importanti diocesi siciliane, nonché il potente abate benedettino Pier Luigi della Torre, cfr. F.P. Pinello, L'amore è il peso che dà il moto all'anima. Giansenismo e massoneria nella seconda metà del Settecento siciliano, cit., pp. 27ss., con citazione di G. Cigno. Di Serafino Filangieri, Elvira Chiosi scrive che della sua appartenenza alla massoneria non esistono prove ma che, attraverso molti dei suoi amici e degli stessi collaboratori, "è possibile stabilire che egli seguì i dibattiti della cultura massonica, condividendone in parte finalità, metodo e linguaggio, sempre riconoscendo al cristianesimo la funzione di base indispensabile per la costruzione di una civiltà. Non a caso, il nipote Gaetano [Filangieri, certamente massone] avrebbe tradotto nella proposta di una nuova religione latomistica [e cioè massonica) temi e problemi appresi proprio alla scuola dello zio", E. Chiosi, Filangieri Serafino, (ad vocem). In "Dizionario Bibliografico degli Italiani" Treccani, Volume 47 (1997). Del fatto che il vescovo di Catania Salvatore Ventimiglia fosse massone, ho già detto. Giansenisti erano anche buona parte dei benedettini e dei domenicani siciliani, oltre ai quesnellisti che, a detta del regio storiografo Domenico Scinà, erano numerosi nell'isola, cfr. Cigno G. O.M. Cap, Giovanni Andrea Serrao e il giansenismo nell’Italia Meridionale, cit., pp. 323-333.

[51] Si veda la ricostruzione fatta da Giustino Cigno, cfr. Cigno G. O.M. Cap., Giovanni Andrea Serrao e il giansenismo nell’Italia Meridionale, cit. pp. 319-348.

[52] Naselli S.Il Palazzo Bongiorno di Gangi. Gli affreschi di Gaspar Fumagalli, Palermo 1968, p. 36.

[53] Pinello F.P., Gli affreschi di Palazzo Bongiorno, "dimora filosofale" a Gangi, cit., p. 27.

[54] Cfr. Micciché R.- Carotenuto G.- Sineo L., Il volto della morte: le maschere funerarie della sepoltura dei preti morti di Gangi. In "Archivio per l'antropologia e la Etnologia", Vol. CXLIV (2014). 

[55] Cfr. Pinello F.P., L'amore è il peso che dà il moto all’anima…, cit., pp. 81 ss.; Pinello F.P., Gli affreschi di Palazzo Bongiorno,dimora filosofale" a Gangi, cit., pp. 100 ss.,“Unconcettoformulato da Gandolfo Felice Bongiorno”.

[56] Cfr. Siracusano C., La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, p. 264; S. Naselli, Il Palazzo Bongiorno di Gangi. Gli affreschi di Gaspar Fumagalli, Palermo 1968.

[57] Si tratta dell’affresco “Bonam Ortu Diem”. Naselli S.Il Palazzo Bongiorno di Gangi. Gli affreschi di Gaspar Fumagalli, cit.

[58] L’icona della Notte.

[59] Cfr. Bongiovanni G., voce Fumagalli Gaspare, in«Dizionario Biografico degli Italiani Treccani», Volume 50 (1998).

[60] Il riferimento implicito è all’icona del Decoro dell’Iconologia di Cesare Ripa.

[61] Di Natale M.C. - Lentini E.- Meli G., Gangi Fotografie di Enzo Brai, Engium, Centro per la Promozione e lo Sviluppo della Cultura, Palermo 1992, p. 80.

[62] Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp. 643ss.

[63] Cfr. Pinello F.P.Gli affreschi di Palazzo Bongiorno,dimora filosofalea Gangi, cit., pp. 43 ss.; Pinello F.P, L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp. 643 ss.

[64] Questo motto è generalmente tradotto con “Così la bellezza rifulge per decoro” ma, come ho dimostrato nella mia opera Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, Bonanno, Acireale-Roma 2020, questa non è la versione corretta. Anch’io, nelle mie due precedenti opere qui più volte citate, l’avevo tradotto così.

[65] Pinello F.P.Gli affreschi di Palazzo Bongiorno, “dimora filosofale” a Gangi, pp. 80 ss.; cfr. Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit., pp. 181 ss.; cfr., Russo F., Francesco Paolo Pinello: Presentazione degli affreschi di Palazzo Bongiorno a Gangi. Comparare perproporzioni’, in «Cultura e Prospettive», n. 36, Luglio-Settembre 2017, supplemento al n. 3, anno XVIII, della rivista culturale «Il Convivio», Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, organo ufficiale dell’Accademia Internazionale Il Convivio, pp. 69-78

[66]  Alajmo F.Giuseppe Fedele Vitale poeta e medico del secolo XVIII,

[67] Cfr. Pinello F.P.Gli affreschi di Palazzo Bongiorno,dimora filosofalea Gangi, cit., pp. 100 ss.

[68] Si tratta dei componimenti poetici pubblicati nel 1762 col titolo L’Applauso e la gioja comune nella geniale, e degnissima elezione in Protettore dell’Accademia degl’Industriosi della Città di Ganci dell’Eccellentissimo, e Reverendissimo Monsignor Tommaso Moncada de’ Principi di Calvaruso, Arcivescovo di Messina, Patriarca di Gerusalemme […] Rime diverse degli Accademici della medesima Ragunanza Colonia della riguardevole Accademia del Buon Gusto di Palermo, Napoli 1762. Questa è l’unica opera pubblicata dall’Accademia degli Industriosi con l’indicazione di Napoli, senza la specificazione della stamperia. Tutte le altre opere furono pubblicate a Palermo, e la stamperia risulta sempre dichiarata. Anche quest’opera, in realtà, fu stampata a Palermo, presso una delle due stamperie alle quali l’accademia faceva stampare le sue opere, e l’indicazione della città di Napoli è un omaggio alla famiglia del principe Moncada, che era attiva a Napoli e assai vicina, massonicamente, al principe Raimondo di Sangro.

[69] «Notizie relative alla vita dell’Autore», in La Sicilia Liberata Poema Eroicu Sicilianu, Di lu ciecu Ab. D.D. Giuseppi Fideli Vitali, e Salvu di Ganci. Opera postuma, Volume V, Palermu 1815, p. 226.

[70] Cfr. Micciché R.- Carotenuto G.- Sineo L., Il volto della morte: le maschere funerarie della sepoltura dei preti morti di Gangi, cit. Anche il tema delle api, del miele, del favo e dell’alveare era un tema massonico. Le api erano rappresentate, come ho già detto,  nel corpo dell’Impresa dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto.

[71] Bongiorno G.F., Agli Eruditissimi, e Chiarissimi Accademici del Buon gusto di Palermo, p. 4, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[72] Si tratta dell’opera Saggi di Dissertazioni dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Vol. I, in Palermo, MDCCLV, Nella Stamperia de’ SS. Appostoli in Piazza Vigliena, Presso Pietro Bentivegna.

[73] Bongiorno G.F., Agli Eruditissimi, e Chiarissimi Accademici del Buon gusto di Palermo, pp. 6-7, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[74] Leggi. In Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[75] Idem, Leggi dell’Accademia.

[76] Cfr. Alajmo F., Giuseppe Fedele Vitale, poeta e medico del secolo XVIII, cit., p. 37.

[77] Leggi dell’Accademia.

[78] Ecco qui la messa in discussione dell’auctoritas (tipica del concetto tradizionale di nobiltà) come principio generale. È in questo senso che Decoro e Buon Gusto vanno a braccetto.

[79] Ed è proprio sulla concezione della “Ragione”, della mente (della "qualità della mente"), che si concentra il focus degli Accademici Industriosi di Ganci.

[80] Viola C., Osservazioni sul canone nell’età dell’Arcadia, cit., pp., 17-19.

[81] Cfr. Pinello F.P., Gli affreschi di palazzo Bongiorno, “dimora filosofale” a Gangi, cit.

[82] Bongiorno G.F., Agli Eruditissimi, e Chiarissimi Accademici del Buon gusto di Palermo, cit., pp. 5-6.

[83] Ivi, pp. 1-4.

[84] Sul gentiluomo e attivissimo libero muratore Francesco Maria Venanzio d’Aquino, si veda la scheda biografica in Castiglione (di) R., La massoneria nelle Due Sicilie e i «Fratelli» Meridionali del ‘700, Vol. II (Città di Napoli), cit. p. 131, nota biografica n. 2.

[85] Su Francesco Paolo Di Blasi, cfr. Crispi F., Pantheon dei martiri della libertà italiana, Torino 1851, pp. 473-493; D’Ayala M., Vite degli Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 199-202; La Mantia V., Francesco Paolo Di Blasi giureconsulto del secolo XVIII, in Archivio Storico Italiano, S. 4, XVII (1886), pp. 37-70; Salomone Marino S., L’Accademia Siciliana di Palermo (1790-1818), Palermo 1894; Guardione F., Di un tentativo politico nel 1795 in Palermo e di Francesco Paolo Di Blasi, in Rivista Storica del Risorgimento Italiano, I (1895), pp. 757-793; Del Cerro E., Un giureconsulto che finisce sul patibolo, in Rivista d’Italia, VIII (1905), pp. 596-608; Guardione F., Scritti di Francesco Paolo Di Blasi, Palermo 1905; Guardione F., La Sicilia nella rigenerazione politica, Palermo 1912, pp. 36-106; Di Mattei R., Idee sociali di un siciliano del ’700, in Rivista d’Italia, XXVI (1926), 3, pp. 57-68; Pontieri E., Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze 1943; Catalano F., Illuministi e giacobini del ’700 italiano, Milano-Varese 1961, p. 87; Falzone F., La Sicilia tra il Sette e l’Ottocento, Palermo 1965, pp. 246-252; Giarrizzo G., Appunti per la storia culturale della Sicilia settecentesca, in Rivista Storica Italiana, LXXIX (1967), pp. 619-622. L’episodio è narrato anche da Leonardo Sciascia, nel suo Il consiglio d’Egitto, Adelphi 2009.

[86] Cfr. Castiglione (di) R., La massoneria nelle Due Sicilie e i «Fratelli» Meridionali del ‘700, Vol. V (La Sicilia), cit. p. 71. Altre notizie su Di Blasi, ivi, pp. 107, 156, 193, 234, 237, 241, 283 ss., 307, 312 ss.

[87] Delogu G., «Un prodigio di possa, e saper». La figura del Libero Muratore ideale nella poesia francese e italiana tra Sette e Ottocento, in «Hiram, Rivista del Grande Oriente d’Italia», n. 3/2013, pagg. 85-89, articolo basato sull’intervento della Delogu (Università di Trieste) all’International Conference on the History of Freemasonry di Edimburgo del 24-26 maggio 2013, p. 89.

[88] Si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, Bonanno, Acireale-Roma 2010.

[89] La necessità di correggere gli errori secondo Buon Gusto e Decoro: è in questo nuovo senso che va intesa la censura operata dagli accademici di cui in argomento (in modo particolare i palermitani del Buon Gusto e Ereini e gli Industriosi di Gangi).

[90] Ed è a questo periodo che risale la descrizione, rispondente a tali canoni, del barone Francesco Benedetto Bongiorno (fondatore e protettore dell’Accademia degli Industriosi di Ganci), fatta da Giuseppe Fedele Vitale (Secretario della stessa), nella sua Orazione in morte, in Rime degli Accademici Industriosi del 1769. Si veda la voce «Bongiorno Francesco Benedetto» del «Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e dei Teologi di Sicilia. Dalle origini al sec. XVIII», che ho riportato nel capitolo dedicato alla sua scheda biografica.

[91] Delogu G., «Un prodigio di possa, e saper». La figura del Libero Muratore ideale nella poesia francese e italiana tra Sette e Ottocento, cit.

[92] Cfr. Ligou D. (ed.), Histoire desfrancs-maçonsen France, Toulouse, Privat, 1981, I, p. 156.

[93] Sul tema della filantropia del barone Francesco Benedetto Bongiorno, si veda l'Orazione funerale di Giuseppe Fedele Vitale. In Rime degli Accademici Industriosi cit. 

[94] Delogu G., «Un prodigio di possa, e saper». La figura del Libero Muratore ideale nella poesia francese e italiana tra Sette e Ottocento, cit.

[95] Cazzaniga G.M., Massoneria e Letteratura. Dalla République des Lettres alla letteratura nazionale, in «Le Muse in Loggia», Milano 2002, pp. 11. Cazzaniga cita, a sua volta, da Tommasi D., Elogio storico del cavalier Gaetano Filangieri, Napoli 1788, p. 180.

[96] Fedi F., Comunicazione letteraria e generi massonici nel Settecento italiano, 2006, pp 80-82. In testo è disponibile all'indirizzo web: https://arpi.unipi.it/handle/11568/107194#.XpLxIsgza00

[97] La lanterne à la main, in Ligou D. (ed.), Chansons maçonniques des XVIII et XIX siècles, Paris, ABI, 1972, p. 7. Il testo fu recitato il 26 febbraio 1744.

[98] Acrostiche, in Chansons notées de la très vénérable confrérie des Francs-Maçons précédées des quelques pièces de poésie convenable au sujetet d’une marche, le tout recueilli et mis en ordre par F. Naudot, 1737, p. 41.

[99] Chansons notées cit., p.1. Traduzione francese del Gobin F.: «Ne point présumer de soi-même /s’appuyer sur l’être suprême, ne former que d’utiles vœux, / se contenter de nécessaire, ne se mêler que d’une affaire, / c’est le sûr moyen d’être heureux. / les grands Emplois sont dangereux. / ne point révéler de Mystère; / tout entendre, mais peu parler; / sentir son avantage, et ne point accabler / celui sur qui nous avons la victoire; / savoir céder aux Grands, supporter les Egaux, / Mépriser l’Orgueilleux, fût il couvert de gloire; /ne s’étonner de rien, soutenir tous les maux, /quoique l’Adversité nous blesse, / sans nous troubler et sans ennui; / bannir tout genre de Paresse; / et pour le dire enfin, la plus haute Sagesse / est en vivant pour Dieu, de mourir avec lui».

[100] Sulla religione e la concezione della divinità in Massoneria, scrive la Delogu in nota, si vedano: Porset C., Franc-Maçonnerie, in Delon M. (ed.), Dictionnaire européen des Lumières, Paris, Presses Universitaires de France, 1997, p. 484 «puisqu’à mesure qu’on avance dans le siècle [...] le Dieu de la Bible devient un Grand Architecte, plus proche de la tradition platonique que de l’héritage augustinien»; Porset C., Introduction, in C. Porset – C. Revauger, Franc-maçonnerie et religions dans l’Europe des Lumières, Paris, Honoré Champion, 1998, p. XIV: (riportando una regola tratta dal Livre d’Or de la Loge Les Amis Réunis, 31 janvier 1785) «“De promettre de respecter au moins exterieurement la religion que l’on professe” […] si l’on reste chrétien de bouche, on a cessé de l’être de coeur»; Moravia S., La filosofia della Massoneria. Un’immagine della sua rinascita moderna nel XVIII secolo, in La Massoneria. La storia, gli uomini, le idee, a cura di Ciuffoletti Z. e Moravia S., Milano, Mondadori, 2004, p. 18, parla di «prospettiva deistica» nella quale Dio viene «interpretato come la Verità, la Bontà e la Legge».

[101] Delogu G., «Un prodigio di possa, e saper». La figura del Libero Muratore ideale nella poesia francese e italiana tra Sette e Ottocento, cit., p. 85-88.

[102] La natura (Epicuro, Lucrezio, Leonardo da Vinci, Copernico, Galileo Galilei, Keplero, Newton ecc.) e il giusnaturalismo (Grozio, Pufendorf, Wolff, Kant ecc.).

[103] Bongiorno G.F., A’ Savj Lettori, p. I, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[104] Schiavo D., Dissertazione I Sopra la necessità e i vantaggi delle Leggi Accademiche, in Saggi di Dissertazioni dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Vol. I, cit., pp. 4-5.

[105] Ivi, pp. 6-7.

[106] Ivi, p. 9.

[107] Ivi, pp. 24-25.

[108] Ivi, p. 10.

[109] Satuti dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto – Leges Academiae Panormitanae vulgo del Buon Gusto. In Napoli, per Felice Mosca MDCCXXII (1722).

[110] Schiavo D., Dissertazione I Sopra la necessità e i vantaggi delle Leggi Accademiche, in Saggi di Dissertazioni dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Vol. I, cit.. Cfr. Castiglione (di) R., La Massoneria nelle Due Sicilie e i «Fratelli» Meridionali del ‘700. Vol V, La Sicilia, cit., p. 13.

[111] Schiavo D., Dissertazione I Sopra la necessità e i vantaggi delle Leggi Accademiche, in Saggi di Dissertazioni dell’Accademia Palermitana del Buon Gusto, Vol. I, cit.

[112] Ivi, pp. 18-19.

[113] Ivi, pp. 20-23.

[114] Cfr., Pinello F.P., L’amore è il peso che dà il moto all’anima, cit.

[115] Questo tipo di moto si contrappone, ostacolandolo, al moto perpetuo e al Lume eterno. Tali considerazioni aiutano ancora di più a capire il motto “Ex Pondere Motus”, che costituisce il corpo dell’Impresa dell’Accademia degli Industriosi di Gangi.

[116] Santacroce G., Dissertazione III Sopra le Università di Sicilia, in Saggi di Dissertazioni, cit., pp. 103-104.

[117] Platone, Thanatos e Eros, il perfezionamento e l’autoperfezionamento di ogni singolo uomo.

[118] Bongiorno G.F., A’ Savj Lettori, pp. I-VII, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[119] È a tale famiglia che apparteneva anche Tommaso Moncada, de’ Principi di Calvaruso, protettore dell’Accademia degli Industriosi di Ganci (si veda F.P. Pinello, Il Decoro. Dalla Cappella Sansevero a Palazzo Bongiorno, Bobabbo, Acireale-Roma 2020).

[120] Ivi, pp. VII-XI.

[121] Nel Settecento, a Napoli e a Palermo, a chi volesse addentrarsi nei misteri alchemici e massonici, si consigliava lo studio dei misteri egizi, greci e latini e della relativa mitologia, dell’ebraico (Torah e quindi cabala, Stella di Davide, Sigillo di Salomone, Tempio di Salomone) e della teologia cristiana (rosacrociana). Si consigliavano pure le ricerche iniziatiche sulla Luna, sul Sole e sulla Sfinge, dapprima associandoli a fatti storici e mitologici, come per le altre icone, per poi andare alla ricerca dei significari più profondi e “misteriosi”. Si veda, per esempio, come sono costruite le descrizioni delle icone dell’Iconologia di Cesare Ripa fatta curare, da Raimondo di Sangro, per la nuova edizione, all’abate Cesare Orlandi.

[122] Bongiorno G.F., Agli Eruditissimi, e Chiarissimi Signori Accademici del Buon Gusto di Palermo, in Rime degli Accademici Industriosi, cit., p. 6.

[123] Bongiorno G.F., A’ Savj Lettori, pp. XI-XIII, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[124] Tosc. Eloquen.

[125] Ist. della volgar Poesia loc. cit.

[126] Una Corona in versi ottenarj per la Gloriosa Vergine Santa Rosalia si trova nelle poesie di Mariano di Napoli, e Bellacera stampate in Palermo per Agostino Epiro nel 1731. f. 82. dagli Eruditissimi, e chiari Poeti Signori D. Nicolò Marini detto Niso Aristeo, Sig. D. Giovanni Natale detto Mirillo Geoponico, e dal Signor D. Mariano di Napoli detto Tirsi Capeneo, di cui è il Magistrale che comincia: Quanto sei tremenda, e forte.

[127] Corticel. Tosc. Eloq. f. 506. Andruc. Poes. Ital. c. I. lib. 2. f. 112.

[128] Corticel. Loc. cit.

[129] Andruc. loc. cit.

[130] Corticel. Poes. Ital. Vol. I. lib. 2. c. 16. f. 166.

[131] Crescimbeni Ist. della volgar Poesia loc. cit.

[132] Stigliani Rimario Lit. V. f. 334.

[133] Loc. cit. f. 225.

[134] Tom. Ceva Scelta di Sonetti f. 166.

[135] Plat. Dialog. in Ju.

[136] Bongiorno G.F., A’ Savj Lettori, pp. XIII-XVI, in Rime degli Accademici Industriosi, cit.

[137] Corone declamate da un solo accademico: Corona in lode di S. Benedetto Martire, Novello Protettore della Città di Calatafimi, Composta da Giacomo Maria Mancusi, e Bazan, in Rime degli Accademici Industriosi del 1769, cit., pp. 261-269; Per le nozze di Bacco di Giuseppe Fedele Vitale, ivi, pp. 351-359.  Corone declamate da due accademici: In lode di un Ipocondriaco, di Gandolso Felice Bongiorno e Giuseppe Fedele Vitale e Salvo, ivi, pp. 315-323; In lode di un Pedante, di Gandoldo Felice Bongiorno e Giuseppe Fedele Vitale e Salvo, ivi, pp. 324-332. Corona declamata da tre accademici: In lode del Naso di N.N., di Francesco Vitale e Pucci, Giuseppe Fedele Vitale e Salvo e Ruderico Vitale e Salvo, Corona Settenaria Bernesca, ivi, pp. 333-341. Corona declamata da cinque accademici: Nella elezione in Mecenate di Monsignor N.N., di Giuseppe Fidele Vitale e Salvo, Gandolfo Felice Bongiorno, Francesco Vitale e Pucci, Ruderico Vitale e Salvo e Vincenzo Centineo.



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